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Gli Istituti Confucio e il soft power cinese
Mentre si riaccende a Hong Kong la tensione fra le istanze democratiche avanzate dal movimento degli studenti e il programma di controllo autoritario perseguito dal governo, fra l’altro in coincidenza con una data densa di risonanze simboliche qual è il 1° ottobre, 65° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, appare opportuna una riflessione attenta sulle caratteristiche del cosiddetto soft power cinese.
E’ quanto ci propone Maurizio Scarpari nel suo intervento “Soft power in salsa agrodolce: Confucianesimo, Istituti Confucio e libertà accademica” pubblicato su Inchiestaonline ( www.inchiestaonline.it ), che si focalizza sul discusso ruolo degli Istituti Confucio, ai quali la RPC ha affidato il ruolo di ambasciatori dell’immagine della Cina nel mondo.
Sorti dieci anni fa e ormai ovunque diffusi, gli Istituti Confucio (IC) riflettono una chiara e precisa linea di politica culturale della leadership post-maoista, che intende presentarsi come legittima depositaria dell’identità culturale cinese in quanto tale, dell’essenza stessa della sinità di cui si ascrive il glorioso retaggio. Si tratta di un progetto che enfatizza, nel nome di Confucio, una presunta unità e continuità delle vicende del Paese di Mezzo all’insegna di una grandeur imperiale, e che espunge dalla rappresentazione gli elementi di conflitto, di frattura, di discontinuità. Ma questo tipo di narrazione storica è ben lungi dall’essere l’unico possibile, come ci mostra ad esempio il bel libro di Kai Vogelsang Cina, una storia millenaria (Einaudi 2014) di cui è ora apparsa l’edizione italiana (ne ho offerto la recensione su alias del 24 agosto e su www.inchiestaonline.it ).
Non casualmente, la parola “rivoluzione” appare derubricata dalla retorica ufficiale, che preferisce fare appello a un ribadito e ostentato legame con la tradizione – un tema su cui si è fra l’altro soffermato il dossier “Passato e presente nella Cina d’oggi” di Inchiesta n.181/2013 (visibile anche su www.inchiestaonline.it).
In questo quadro, il richiamo a Confucio assume molteplici funzioni. All’interno, esso corrisponde al tentativo di ricostruire un collante ideologico, quasi in chiave di religione civile; all’esterno, per il tramite di tale icona universalmente nota gli Istituti cercano di accreditare un’immagine accattivante e rassicurante della potenza cinese. Ma se la presenza degli IC ha inizialmente incontrato grande favore in molte università di cui sono ospiti, attualmente va suscitando diffidenze, perplessità e anche aperte polemiche, motivate specificamente da alcuni episodi in cui si è assistito a sgradevoli tentativi di porre vincoli alla libertà di dibattito e di censurare argomenti ritenuti scomodi dal governo di Pechino. Sulla natura e sul ruolo degli IC – se siano utili mezzi di dialogo interculturale o strumenti più o meno dissimulati di propaganda e di controllo autoritario – si è così aperto un vivace dibattito a livello internazionale che meriterebbe di ricevere anche in Italia una maggiore attenzione.
Sull’argomento esiste ormai una ricca letteratura critica, che annovera molti contributi interessanti (solo per citarne alcuni, “China and International Harmony” di James Paradise, in Asian Survey 49,4, 2009, e “Soft Power and Higher Education” di Rui Yang, in Globalization, Societies and Education 8,2,2010) sullo sfondo più ampio di analisi del soft power cinese – come quella svolta da Stéphanie Balme ne La Tentation de la Chine (Cavalier Bleu 2013) – che ne rilevano anche aspetti paradossali e contraddittori, e di considerazioni problematiche sulle tensioni implicate dal fenomeno ambivalente che Léon Vandermeersch definisce come “la nuova convergenza del mondo sinizzato” (Le Débat, 2009/1, n.153).