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“L., come va?”. L. brontolava, come al solito. Avevano strappato l’Unità dalla bacheca della Weber e così proprio la sua fabbrica non avrebbe più potuto accogliere “il verbo”.
E questo a L. proprio non andava giù. Il presidio prontamente organizzato dalla Cgil e un Camper stazionato prepotentemente davanti ai cancelli della storica industria avevano mostrato che quell’atto volgare non ci avrebbe spaventato. E che l’Unità sarebbe ritornata presto in fabbrica. Non era spaventato neanche L. che con gli occhi sornioni e tristi rivolti all’ingiù, il berretto blu calato a tre quarti e la sigaretta cadente poggiata appena sull’angolo della bocca, girava tra di noi infreddoliti dalla bruma autunnale. Facendosi vedere con l’Unità in evidenza sul petto si offriva, a quei pochi fotoreporter svogliati che erano stati catapultati lì per raccogliere la notizia: erano del Carlino o della Repubblica? Di certo si trattava di precari se erano stati mandati lì a prendere freddo con noi. In quella giornata uggiosa e senza molta fatica L. si era guadagnato così l’attenzione della stampa. La domenica seguente in Bolognina non si parlava d’altro. Si discuteva delle discriminazioni in fabbrica e di come recuperare la vicenda mentre lui, per far bella mostra della sua opera, faceva scivolare senza troppa disinvoltura la prima pagina sotto i nostri occhi. “Hai visto?” mi disse. E fu l’inizio. Sapeva che ero della CGIL, cosa facessi non proprio, né lo interessava. Ero della CGIL e questo gli bastava, non serviva altro. Si era avvicinato e, con la esse bolognese ben marcata, mi aveva detto: “Per me, sai, non è sempre stato così!!” – “Così cosa?” era stata la mia replica. E lui, intrecciando maldestramente il dialetto al suo italiano “Me a nun son mica stet semper d’ la CGIL“. “A no?” feci io con la sonnolenza della domenica.
“Scolta – mi disse – ‘scolta ben com l’è andè”. Nella frase aleggiava un velo di mistero. Ma quale storia si celava dietro questa promessa di confidenze personali? Quali sorprese? La sua era stata una vita difficile, era stata una vita sofferta o aveva anche lui vissuto l’epopea partigiana? Proprio no. Mi sbagliavo.
Cominciò: “Da ragazzino – me era quasi un cìnno – avev pur d lavurer e così mi presentai in fabbrica!”. Il padrone mi guardò e disse: “Ma tè, te vut propri lavurer?”. “Me sè!” fece L. risoluto. “Ma te, dimmi, non sarai mica di quelli che fan politica?” continuò il proprietario. “Me no! Cosa vuol che ne sappia io della politica, me mi interessan sol le ragazzùole!” e il padrone: “Ma allora, dimmi ben, quale giornale leggi?”. “Me? Lo Stadio!!” fece L. ormai certo di aver superato la diffidenza del padrone. Il lavoro sarebbe stato suo. Era felice L., aveva gabbato il padrone. Aveva vinto lui quella sfida. Lui veniva da una famiglia comunista e l’antagonismo verso “il capitale” lo aveva bevuto con il latte materno e gli apparteneva quella furbizia minuta con la quale da sempre la povera gente si è difesa dall’arroganza dei forti.
Era iniziata così anche per lui l’avventura del lavoro. Ma non era, tuttavia, di questo che voleva parlarmi, non della sua condizione di lavoro o del suo salario. Era della sua militanza sindacale o, almeno, di quella che lui riteneva tale. E cosi continuò: “Quando ho cominciato a lavorare, mi si è presentato subito un sindacalista. Era sì della UIL, ma …. – disse con fare quasi sorpreso – ma … era una brava persona!” come a volersi scusare di aver dato retta a chi avrebbe dovuto considerare un traditore della classe operaia.
“Mi aveva detto, senti mò L., qua siamo in tre i Confederali: CGIL CISL e UIL. Più o meno siamo uguali… – disse alzando le spalle – … fa mo tè”. A L. questo approccio leggero e possibilista – oggi si direbbe soft – era piaciuto e così si era iscritto alla UIL. Eppoi, non era forse la UIL l’Unione italiana dei lavoratori? Allora ci poteva stare anche lui nell’unione di tutti i lavoratori!
La storia si faceva intrigante e bisognava andare a fondo. “Quando a’ sun torna’ a ca’, ero davvero soddisfatto, ho aperto la porta, ho visto mi mader e le ho detto felice: mama, oggi mi son iscritto al sindacà” e mi meder: “Bravo figlio mio! E dimmi ben, a quale sindacato ti sei iscritto? Dimmi mò!”, L.: “Mama, alla UIL!” e lei “Saragattiano!!” urlò scandalizzata. La presenza di Satana l’avrebbe sconvolta di meno.
Ma, si sa la mamma è pur sempre la mamma e la discussione finì rapidamente lì dove era iniziata.
I giorni passavano, ma dalla UIL nessuna notizia. Come mai? Il giornalino della UIL era onore e vanto di quella confederazione ed era certamente lo strumento più efficace della sua strategia di proselitismo. Ma a L. non arrivava niente. L. non sapeva quale motivazione dare a questo trattamento differenziato. Che davvero la Uil avesse una doppiezza di comportamento come si vociferava tra comunisti? Era anche lui vittima della strategia politica avversaria?
Trovò risposta alle sue domande un mattino quando, prima di uscire di casa si girò di scatto per salutare sua madre e … ZOOTT!!. Lei era lì che con mossa lesta e decisa lanciava sul fuoco acceso del camino la voce dei lavoratori della UIL!
L. aveva capito – oramai – che quella sua scelta iniziale non poteva aver seguito e che se sua madre non lo aveva certo contrastato apertamente nelle sue scelte – per amore materno, si diceva prima – il sabotaggio del nemico, quello sì che era stato possibile, anzi dovuto in nome del sol dell’avvenire!
L. qualcosa doveva pur fare per dipanare l’intricata matassa e fu così che si risolse ad andare dall’allora Segretario cittadino del PCI – il Partito Comunista Italiano di Bologna, in via Barberia che sin dall’origine avrebbe dovuto essere il suo riferimento certo. Almeno per sua madre.
“Ma te, lo conoscevi R.?” mi domandò. “Certo che lo conoscevo – risposi io – da ragazzo non era mica stato il Segretario della cellula universitaria del PCI?”. L. sapeva che non ero mai stata comunista, ma la mia pronta e compiuta conoscenza del suo mondo mi rendeva interlocutrice accettabile. Di certo non ero contro e così continuò: “Andai da R. e gli dissi: senti mò, compagno Segretario, me son comunista ma ….. – dopo un breve silenzio e con uno sguardo circospetto – … ma son iscritto alla UIL!”.
Ormai il più era fatto, aveva confessato il suo peccato mortale. Concluse: “Te, che sei il Segretario dimmi mò cosa devo fare? Mi cancello dalla Uil? Ma poi, come si fa? Me a ‘un so’ mica!” e M., che lo aveva ascoltato attentamente e non senza stupore, dopo aver pensato un po’ e lanciandogli una sguardo complice, sentenziò: “Stai mò ben dove sei L., eppoi …. quando quelli della UIL presentano le piattaforme …. te vota contro! Vota contro sempre!”.
L. trasecolò e il Segretario, cui non era sfuggita la sua aria attonita continuò con clemenza didattica: “Vedi, compagno, noi abbiamo assolutamente bisogno del sindacato unitario e se la CGIL è troppo forte e c’è solo lei, come facciamo a farlo? Dobbiamo far crescere, quindi, anche la CISL e la UIL , noi”.
“Fu così – concluse L. un po’ sconsolato, ma certo di essere stato in quel modo definitivamente cooptato, nelle più intime strategie politiche del Partito – che capii allora e per sempre che la politica l’è una cos …. COMPLESSA!!!” e sollevando al cielo gli occhi si allontanò scuotendo la testa e con i suoi giornali sotto il braccio.
Bologna, 11 novembre 2014
Anna Salfi © Tutti i diritti sono riservati