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di Amina Crisma
1. À nous la liberté.
Presentando il numero di Charlie Hebdo uscito l’altro ieri, il disegnatore Luz diceva fra l’altro, trovando il coraggio di sorridere attraverso una soverchiante emozione, che gli atei di Charlie Hebdo fanno miracoli, come quello di far suonare per loro le campane di Nôtre Dame. Ma il miracolo più grande di questi giorni è stata quella grande e variopinta piazza di Parigi che ha restituito carne e sangue, vita e respiro a parole che prima, ma ora davvero non più, potevano sembrarci retoriche, vacue e spente: liberté, fraternité.
Quella piazza ci mette sotto gli occhi quello che ci accomuna nella nostra diversità, nella nostra irriducibile pluralità – la pluralità che è la legge della Terra, come diceva Hannah Arendt. Irriducibilmente plurali, e insieme intimamente accomunati da quello che prima di essere un’idea o un ragionamento, è un comune sentire: il sentimento comune della nostra fraternità umana, del nostro essere frères humains. Il senso della solidarietà che ci lega, a partire dalla percezione fisica della nostra fragilità, del nostro essere inermi ed esposti al dolore, del nostro essere mortali – un sentire comune che è inscritto in ciascuno di noi, e che nessun arrogante e feroce banditore di odio, per quanto nefasto possa essere, riuscirà mai a estirpare. Nessun chiassoso predicatore di Guerre di Religione e Scontri di Civiltà, per quanto temibile, riuscirà mai a cancellare il senso di questa fondamentale, semplice, irrecusabile, primaria e universale religio. E alla sfilata dei potenti e dei governanti che si svolgeva distinta e separata, quella piazza ricordava, con la sua stessa nuda presenza, che ci sono dei doveri da adempiere verso le creature umane, come li chiamava Simone Weil.
Ma torniamo alla pluralità. Io sono cristiano, ebreo, musulmano, ateo, diceva Luz. E ancora diceva: Noi siamo dei bambini. Dei bambini che vogliono ridere e giocare.
Queste parole mi hanno ricordato la storia singolare di una donna che mi sembra per tanti versi esserne la concretizzazione, e che ho incontrato a Parigi vent’anni fa. Si chiamava Janine Cahen, era nata nel 1931 a Mulhouse, è morta il 10 agosto 2011. Proveniva da una famiglia ebraica: nella sua casa di Meudon, rue President Paul Doumer, c’era il pianoforte di suo cugino morto ad Auschwitz.
2. Storia singolare di Janine Cahen.
Schiva e riservata, Janine Cahen non amava troppo parlare di sé. Di sicuro era laica, e una laica incinerazione è stato anche il suo funerale; ricordo le sue battute di allegra irriverenza, la sua insofferenza verso ogni forma di bigotteria e di clericalismo. Con tutto questo, è Janine che mi ha fatto scoprire quell’appartata attestazione di spiritualità cristiana che è Port Royal des Champs, e l’intensità straordinaria del Christ aux outrages di Philippe de Champaigne che vi si trova. Quando l’ho incontrata per la prima volta nel 1994, si era appena prepensionata da correttrice di bozze a Le Monde (il blogscorrecteurs del giornale fra l’altro le ha dedicato un commosso ricordo), ma nella sua vita aveva fatto tante altre cose, era stata insegnante, traduttrice, redattrice, aveva fra l’altro vissuto in Italia lavorando al Saggiatore.
Soprattutto, nel ’60 Janine è stata una “porteuse de valise” del reseau Jeanson, la rete che appoggiava l’FLN: un’attività che le era valsa una condanna a otto mesi di prigione. Alla durezza della condanna, spropositata rispetto alle accuse, pare non fosse estraneo lo scandalo per il fatto che un’ebrea aiutasse gli arabi della resistenza algerina. In prigione aveva conosciuto Micheline Pouteau, altra militante del reseau Jeanson che aveva avuto una condanna a dieci anni e che, dopo essere evasa con cinque compagne, l’aveva raggiunta a Milano, dove insieme avevano scritto un’articolata cronistoria dell’opposizione alla guerra d’Algeria, Una resistenza incompiuta: la guerra d’Algeria e gli anticolonialisti francesi (Il Saggiatore, 1964). Micheline, che avevo incontrato vent’anni fa a casa di Janine, è morta nel maggio del 2012.
C’è da chiedersi che fine ha fatto oggi la speranza e l’utopia che induceva quelle ragazze di allora a militare in quella causa pagando prezzi così gravosi. Ma che cosa è successo nel mondo in questi cinquant’anni? Uno che se lo era lucidamente chiesto era il libanese Samir Kassir, assassinato nel 2005: credo dovremmo oggi rileggere attentamente quel suo libro sull’infelicità araba che è stato anche il suo testamento spirituale.
Janine era una pluralità vivente. Ogni creatura umana lo è, come dimenticano gli assassini che oggi si trasformano in impersonali e atroci strumenti di morte, e che trattano come cose, come meri oggetti del loro sadismo perverso le loro vittime.
Janine aveva infantili occhi chiari. Mi raccontava che quando era bambina la minaccia incombente su di loro non aveva tolto a lei e ai suoi fratelli la voglia di ridere e di giocare.
E oggi rivediamo la scena di bambini ebrei minacciati di morte, al supermercato kosher di Porte de Vincennes. Non credevamo fosse possibile, dopo oltre settant’anni dalla rafle du vél d’Hiv, il rastrellamento che nel luglio del ‘42 a Parigi avviò allo sterminio, fra i quasi tredicimila ebrei catturati, oltre quattromila bambini.
3. Definizioni.
“Sono come i nazisti”, mi ha detto mio padre, che ha ottantasette anni e certe cose le ha viste, commentando l’azione del commando jihadista di Parigi. Mi sembra tutt’altro che una definizione generica. Ripercorriamo la sequenza: un primo commando stermina una redazione inerme di anarchici libertari, e il secondo che vi è collegato va a caccia di ebrei. Non capisco davvero perché si esiti a definire il terrore jihadista con il termine che più gli si attaglia.
E le parole più dure che si sono finora sentite di condanna degli assassini sono venute dall’imam di Drancy, tra i primi ad accorrere sul luogo dell’eccidio: “Il loro odio, la loro barbarie non hanno niente a che fare con l’Islam” (Islam vuol dire pace, come ben ci rammenta Vito Mancuso). “Sono barbari che hanno perduto la loro anima. Hanno venduto la loro anima all’inferno”.
Mio padre, cattolico, e l’imam di Drancy sono, spontaneamente, del tutto concordi nell’inorridire di fronte alla disumanità del massacro, e nel definirlo chiaramente e nettamente per quello che è. Alla faccia dei farneticanti, chiassosi e non disinteressati banditori dello Scontro di Civiltà e della Guerra di Religione.
C’è un maestro e un amico della cui voce sentiamo particolarmente la mancanza in questi giorni, Pier Cesare Bori. Fra i testi che proponeva nel suo gruppo di lettura, anche con i detenuti del carcere della Dozza a Bologna, c’erano il Corano e la Bibbia, Platone, le fonti buddhiste, Confucio e Laozi, e tanti altri ancora. Era alla ricerca di un consenso etico fra culture (così si intitola un suo libro importante, del 1991), le cui risorse riconosceva nelle fonti di molteplici tradizioni. In mezzo a tutto il fragore di chiacchiere che ci sommergono, sono le sue pagine che andrebbero soprattutto rilette oggi, per ritrovare, per noi e per i nostri fratelli umani, il quieto centro di verità, di amore e di giustizia, di ragione e di sentimento, di religio e di laicità, da cui ripartire. Ripartiamo da quelle parole autentiche, che custodiscono la speranza e la promessa di un’umana communio, e che sono così diverse dalle urla sguaiate di coloro che nella loro arroganza blasfema si impossessano del sacro nome di Dio per i loro scopi di morte, lo sviliscono come se fosse un giocattolo di loro proprietà, lo profanano asservendolo ai loro biechi interessi di prevaricazione e di dominio.
Come dice l’imam di Drancy: al di là di quello che sbraitano, è dalle loro opere, da quello che fanno, che potete chiaramente capire chi sono davvero.
4. Ma chi è che bestemmia?
Adesso c’è una gran discussione su fino a dove si può spingere la satira, una discussione che a quanto pare ha fra l’altro attraversato e attraversa anche Charlie Hebdo. C’è però un punto che mi sembra resti in ombra, e che è invece importante, come ha messo in luce l’intervento di Vittorio Capecchi su inchiestaonline, dal titolo apparentemente paradossale: quelle vignette ci avvicinano a Dio. La vignetta del Profeta che piange, altro che irriverente, non è forse la lucida denuncia di una profanazione?
Mi chiedo, e vi chiedo: ma come può dirsi credente chi si scandalizza per un disegno, e osa trasformare Dio nel caricatore del suo kalashnikov?
Chi è davvero il bestemmiatore? Chi è davvero l’empio profanatore?
E oltre a questo, c’è un’altra cosa da dire.
Credo che ogni religione abbia bisogno della dialettica della laicità – e anche delle sue provocazioni – per salvarsi dalla possibile hybris: per salvarsi dalle tentazioni della superbia, dell’arroganza, della violenza, per evitare il rischio di trasformarsi in apparato di potere o in opaca idolatria. Che abbia bisogno di questa vitale dialettica per trovare quanto di meglio, quanto di più intimamente e veracemente le appartiene.
Paradossalmente, ma forse non troppo, uno dei discorsi più teologicamente profondi che ho sentito in questi giorni è quello del disegnatore Gipi: io sono ateo, ha detto, ma se Dio ci fosse non potrei conoscerlo, la sua infinità eccederebbe la mia mente e le mie parole.
Ai credenti si chiede: ma che idea di Dio è mai quella che non ne rispetta il mistero?
E’ al mistero della trascendenza del Padre che rinviava l’apologo dei tre anelli – quella straordinaria favola medievale sulla fraternità delle religioni abramitiche che circolava nel Mediterraneo sulle rotte cosmopolite dei mercanti, che Boccaccio ha trascritto nel Decameron, che la cultura dell’illuminismo con Lessing ha poi ripreso, e che Ulrich Beck additava come modello sempre attuale. Quella parabola ci ricorda una trascendenza che non si può ridurre a possesso, e di cui nessuno si può impadronire, arrogandosene il monopolio.
5. Salvare i bambini.
In un suo scritto famoso, quasi cent’anni fa lo scrittore cinese Lu Xun, nel contesto di una dura polemica contro quella che egli definiva come la ferocia cannibalesca della società in cui viveva, esortava “Salvate i bambini”. A ripeterlo negli scenari di oggi, quello slogan viene ad acquistare una inedita risonanza. Di fronte ai bambini ebrei minacciati a Parigi, alle bambine violate e massacrate in Nigeria dalle orride gesta di Boku Haram, ai bimbi di Gaza, a ogni bambino di questo mondo, e anche ai bambini inermi che tutti hanno dentro di sé.
Di salvare i bambini aveva parlato, duemilaquattrocento anni fa, un maestro della Cina antica, Mencio, in un passo che PierCesare Bori ha commentato in pagine dense, additandone tutta la profondità e l’attualità. Mencio sosteneva che la sollecitudine per loro, l’insopportabilità della vista della loro sofferenza, è precisamente quanto ci fa umani.
Dobbiamo oggi, credo, ripartire da questo: riascoltare, ritrovare la pregnanza di quelle semplici, profonde e antiche parole, che ci aiutano a distinguere, al di là delle fragorose retoriche troppo in voga sui Grandi Feticci delle Civiltà e delle Culture, quanto davvero accomuna, nella loro pluralità irriducibile, i fratelli umani, fatti di carne e di sangue, di respiro e di coscienza, sotto il Cielo. E farne programma condiviso del nostro agire quotidiano.