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L’odierna riedizione de Il Tao della filosofia di Giangiorgio Pasqualotto, originale e fecondo esperimento di comparazione apparso nel 1989, offre un’occasione importante per riflettere su una questione cruciale: quanto la cultura italiana d’oggi è davvero aperta a una riflessione interculturale?
Il Tao della filosofia. Corrispondenze tra pensieri d’Oriente e d’Occidente di Giangiorgio Pasqualotto, che viene oggi ripubblicato da Luni, è apparso per la prima volta da Pratiche Editore di Parma nel 1989, ed è stato davvero un seminal work, che dischiudeva ai suoi lettori un affascinante universo comparativo dove si incontravano Eraclito, Spinoza, Il pellegrino cherubico e il Laozi, Nietzsche e il buddhismo zen. In particolare, è stato un libro di speciale importanza per coloro che in quel periodo intraprendevano lo studio della lingua e del pensiero cinese, un’attività che allora, come so per diretta esperienza, non di rado veniva tacciata di essere nulla più di una futile stravaganza, e che invece in quest’opera riceveva il suffragio di motivazioni corpose e sostanziali: la relazione con un mondo lontano dall’Occidente vi era rappresentata non come un’esigenza estrinseca e accessoria, come una superficiale divagazione esotica, ma come un bisogno fondamentale, intimamente inerente alla natura stessa della filosofia intesa come interrogazione e come dialogo inesausti – insomma, come esplorazione di inediti crinali anziché come appagato dimorare in luoghi familiari e rassicuranti.
E’ a tale connotazione essenziale che il libro deve la sua perdurante attualità. Esso è stato il punto di avvio di un originale e fecondo percorso del suo autore, docente all’Università di Padova, che si è sviluppato nei lavori degli anni seguenti – da Estetica del vuoto (1992) a Illuminismo e illuminazione (1997), da East and West (2003) a Per una filosofia interculturale (2008), da Filosofia e globalizzazione (2011) a Le filosofie del Grande Oriente (2013) – e che appare un’esperienza davvero singolare nel panorama filosofico italiano, tuttora in genere poco propenso a coltivare interessi non eurocentrici. Tale prospettiva ha suscitato l’attenzione di vari studiosi che si occupano specificamente di Orienti (India, Cina, Giappone) e che ne sono stati e ne sono interlocutori, come Antonio Rigopoulos, Maurizio Scarpari, Aldo Tollini, Stefano Zacchetti, ma anche di un più largo pubblico di lettori colti e curiosi che nelle sue limpide pagine hanno trovato una via d’accesso a temi non facili, ed è stata fra l’altro un fertile riferimento per le indagini di giovani ricercatori come Marcello Ghilardi ed Emanuela Magno, come attesta ad esempio il volume da loro curato Sentieri di mezzo tra Occidente e Oriente (Mimesis, Milano 2006).
Si tratta di un indirizzo che presenta significativi elementi di affinità con la concezione del “dialogo dialogante” di Raimon Panikkar, ma anche, a mio avviso, con certi spunti di Paul Ricoeur, in merito all’esigenza tuttora inadempiuta dalla cultura occidentale di “rendere giustizia alle grandi esperienze dell’India e della Cina”, e si caratterizza in modo peculiare rispetto alla proposta di “uso filosofico della Cina” di François Jullien, a cui viene talora, per certi versi, accostata (ne parlo, nel volume appena citato, in “Dao ossia cammino: note in margine al percorso di riflessione di Giangiorgio Pasqualotto”).
Oltre che nei libri, la prospettiva di Giangiorgio Pasqualotto si è espressa e si esprime in molteplici iniziative, in vivaci spazi dialogici che intorno a lui sono nati e cresciuti, e dei quali egli è stato ed è promotore e animatore, dal Master in Studi Interculturali di Padova alla rivista di filosofia orientale e comparata Simplegadi, vissuta dal 1996 al 2009, dagli incontri di vicino/lontano a Udine ai seminari sul pensiero dell’India, della Cina e del Giappone da lui promossi all’Università di Padova, fra i quali ricordo, in particolare, il primo che egli mi ha invitato a tenere insieme a lui al Liviano nell’ormai lontano 1996/97, “Pensiero e linguaggio nel dibattito della Cina classica”.
Ma qual è la ricezione odierna di questo tipo di discorso nell’ambito della cultura italiana, a distanza di venticinque anni dall’apparizione del Tao della filosofia? E’ desolante constatare come l’attenzione per i mondi di pensiero non occidentali costituisca tuttora, in sostanza, una rarità al di fuori degli ambiti specialistici, in un clima in cui sembra accentuarsi la divaricazione fra la settorialità autoreferenziale di tanti discorsi accademici e la banalità di tanta comunicazione corrente improntata al facile consumo di esotico.
Se è vero che nel corso degli anni recenti l’interesse per i pensieri orientali è indubbiamente cresciuto in misura notevole, e molte opere rilevanti di alta divulgazione hanno fra l’altro contribuito ad allargarne significativamente gli spazi, tuttavia nel nostro Paese siamo ancora molto lontani dall’attribuirvi la cruciale importanza che vi andrebbe assegnata, nella scuola a ogni livello, nell’università, nella cultura diffusa, nel dibattito pubblico. Oggi più che mai, in un orizzonte in cui riemergono minacciosi i fondamentalismi, l’elaborazione di una prospettiva critica interculturale – not merely western – è l’antidoto di cui abbiamo bisogno, da contrapporre alle arroganti e non disinteressate celebrazioni – a Oriente come a Occidente – degli Scontri di Civiltà. Potremmo e dovremmo farne la base per una lettura, una riflessione, una conversazione condivisa.
Giangiorgio Pasqualotto insegna ‘estetica’ e ‘storia della filosofia buddhista’ presso l’università di Padova.
tra le sue pubblicazioni più importanti: estetica del vuoto (1992); illuminismo e illuminazione (1997); yohaku (2001); east&west (2003); figure di pensiero (2007); dieci lezioni sul Buddhismo (2008); Oltre la filosofia (2008); tra Oriente e Occidente (2010); filosofia e globalizzazione (2010