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La campana che suona per l’Europa

di Maria C. Fogliaro

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Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sarebbero trecentomila le persone che, dall’inizio del 2015, hanno attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, e si stima che saranno un milione entro la fine dell’anno. Si tratta di movimenti – con pochi precedenti nella storia – di interi popoli, cui guerre, povertà, disperazione, forniscono l’energia e le motivazioni necessarie per affrontare viaggi rischiosi e per affidare davvero (senza alcuna retorica, purtroppo) la propria vita al destino.

È evidente che questo fenomeno, per la sua vastità e complessità, non può essere interpretato solo in termini di allarme e di sicurezza, essendo esso il frutto, probabilmente inevitabile, di decisioni politiche e di circostanze storiche ben precise. Era il 1884, quando – con la Conferenza di Berlino – partiva ufficialmente lo Scramble per l’Africa, cioè la corsa alla colonizzazione del continente africano da parte delle potenze europee. Da allora, pur tenendo conto dei cambiamenti storici, economici e geopolitici intervenuti nel frattempo, il rapporto dell’Occidente con «il resto del mondo» è stato improntato al dominio e alla rapina coloniale, e si è tradotto nell’appoggio irresponsabile a governi corrotti, repressivi e autoritari e, parallelamente, nel fomentare l’odio nelle aree di primario interesse economico-strategico.

Oggi, quasi per una sorta di vendetta della Storia, l’Europa paga tutte, in un sol colpo, le proprie responsabilità. Il Vecchio Continente si trova, infatti, a dover fronteggiare un evento epocale, che riporta il Mediterraneo e i Balcani (l’altra rotta fondamentale per raggiungere il Nord-Europa, meta finale di questi viaggi della speranza) al centro del mondo, e che è destinato a cambiare profondamente, o addirittura a destabilizzare, società impaurite e incattivite dalla prospettiva del proprio declino.

In realtà – è bene ricordarlo – quelle che oggi sono vissute, da una parte cruciale dell’opinione pubblica europea, come minacciose migrazioni selvagge sono il frutto delle contraddizioni prodotte dalla diffusione planetaria di un capitalismo sempre più aggressivo, da un lato, e delle guerre esportate dall’Occidente in nome della democrazia o della «guerra al terrore» inaugurata dopo l’11 settembre, dall’altro. Gli interventi in Iraq, Libia e l’atteggiamento ambiguo nei confronti della Siria di Assad sono, in questo senso, emblematici delle responsabilità dell’Europa e degli Stati Uniti nel processo di destabilizzazione di un’area fondamentale e in perenne equilibrio instabile come quella che va dal Nord Africa al Medio Oriente. È, infatti, da clamorosi errori strategici e da sciagurati calcoli cinici che nasce l’Isis – il sedicente Califfato islamico formato dai miliziani jihadisti in Iraq e in Siria –, che a causa della distruzione dello Stato in Libia (soprattutto per l’intervento di Francia e Inghilterra) e dello smembramento del Paese in fazioni in guerra fra loro sta arrivando a minacciare da vicino l’Italia e l’Europa.

Ora, di fronte a queste sfide, gli Stati cercano di difendersi. Immemori, forse, della propria storia e del coraggio di un tempo – quando erano i propri popoli a combattere per la libertà o a cercare altrove una nuova speranza –, i Paesi europei tendono a chiudersi nei propri egoismi nazionali: innalzano muri e barriere; respingono i migranti; si sottraggono al dovere di dare asilo a chi è in fuga dalla guerra, costringendo i profughi ad avanzare fra blocchi delle forze dell’ordine e filo spinato, come accade quotidianamente nei Balcani; cercano di porre limiti sempre più stretti all’accoglienza, arrivando addirittura – come ha fatto in questi giorni il ministro dell’Interno britannico, Theresa May – a porre in questione anche uno dei pilastri dell’Unione, il principio della libera circolazione delle persone nei Paesi dell’UE.

A fronte della paralisi decisionale a livello di istituzioni comunitarie, i singoli Stati, preoccupati per il proprio ordine interno, concedono spazio a ogni sorta di rivendicazione populista, dimenticando però che l’istinto alla vita – come testimoniano le immagini quotidiane dei profughi che attraversano il Mediterraneo o il confine greco-macedone, o quelle dei migranti in attesa a Calais o bloccati a Ventimiglia – è veramente una potenza irresistibile e che nessuno potrà davvero fermare chi è in viaggio alla ricerca delle condizioni necessarie per vivere in pace. Non è possibile, pertanto, tornare indietro e illudersi che nulla sia successo. La situazione richiede un’azione immediata, che non può prescindere da un maggior coinvolgimento – a livello di cooperazione politica, militare, sanitaria – dei Paesi da cui ha origine la catastrofe umanitaria. Bisogna coinvolgersi: andare noi da loro, non per saccheggiare o asservire, ma per aiutare a ricostituire un ordine civile. È giusto ed è doveroso, nell’interesse di tutti.

Ma per far questo è necessario – anche tenendo conto dell’assenza politica delle Nazioni Unite – che l’Europa si svegli dal suo ormai troppo lungo letargo e agisca, adottando una linea politica unitaria, in sintonia con la propria storia, ispirata al rispetto dei diritti umani e alla libertà dell’individuo. La Germania, intanto, si è mossa e il 25 agosto – per decisione del suo Cancelliere, Angela Merkel – ha sospeso unilateralmente il regolamento di Dublino II (che obbliga chi richiede asilo politico a farlo nel primo Paese europeo in cui arriva) per i profughi siriani. È una decisione che certamente avrà importanti ripercussioni sugli equilibri europei. La qualità della soluzione che potrà essere trovata sarà, inoltre, ulteriormente condizionata dalle prossime scadenze elettorali in Grecia, Portogallo, Polonia e Spagna. Siamo davanti a una grande occasione per l’Europa. Se c’è, è ora che si desti: il suo onore, la sua storia, il suo destino glielo impongono.

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