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Francofonia. L’arte, la guerra, la Storia.

di Maria C. Fogliaro

Mise en page 1

«Un popolo è circondato dall’oceano, un essere umano ha un oceano in sé» afferma la voce narrante in Francofonia − Il Louvre sotto occupazione (Le Louvre sous l’Occupation, Francia, Germania e Olanda, 2015, 88’), l’ultimo lavoro di Aleksandr Sokurov (la voce narrante nella versione originale), in concorso alla Settantaduesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Nelle scene iniziali del film il regista è a casa sua in video-collegamento, tramite il computer, con il capitano Dirk, che al comando della sua nave − carica di opere d’arte di inestimabile valore − sta affrontando, con grande pericolo, il mare in tempesta. Dirk sa che, prima o poi, sarà costretto a fare una scelta: sottrarre alla bufera nave ed equipaggio e lasciare che le opere si inabissino sul fondo del mare, o tentare di salvarle. Sballottare l’arte sull’oceano è disumano, riflette Sokurov. Sa molto bene che «le forze del mare e della Storia sono così: senza coscienza, senza morale», e che l’uomo e la sua opera sono sempre esposti al rischio e alla contingenza.

Così fu per il XX secolo, che iniziò con la Grande guerra. Così fu per Parigi, minacciata dalla barbarie nazista. Era il 14 giugno 1940, e il nuovo padrone tedesco entrava in città. Parigi era vuota, ma due uomini, sia pur nemici tra loro, sapevano che la sua anima − il Louvre − doveva essere preservata. A tal fine il conte Franziskus von Wolff Metternich (Benjamin Utzerath) − nominato dall’alto comando della Wermacht a capo della Kunstschutz in Francia (la commissione tedesca per la protezione delle opere d’arte) − e Jacques Jaujard (Louis-Do de Lencquesaing) − direttore del museo del Louvre e grand comis dello Stato francese − unirono forze e ingegno per proteggere l’enorme patrimonio artistico custodito nel museo e trasferirono la maggior parte delle sue opere in luoghi sicuri, lontani da Parigi. Inoltre, davanti a una direttiva di Ribbentrop che esigeva il trasferimento delle opere d’arte nel territorio del Reich, Metternich − a rischio della vita e finché non venne rimandato in Germania, nel 1942 − prese tempo, salvando in tal modo dipinti e sculture dalla rapacità dei gerarchi nazisti. Una grande fortuna per la Francia − «i tedeschi ti hanno riconosciuto il diritto di esistere», afferma la voce narrante −, un dono immenso per tutta l’umanità.

Chi vorrebbe una Francia senza Louvre? Chi saremmo senza i nostri musei, senza il nostro passato? E, soprattutto, cosa saremmo senza l’Europa? A queste domande il regista russo risponde guidando lo spettatore − in un viaggio surreale e, per certi versi, commovente − dentro le sale del Louvre, indugiando, con la macchina da presa, sui particolari delle singole opere, per consentire di inquadrarne ogni dettaglio. E mentre chi guarda si perde nel piacere e nella nostalgia, ammirando i capolavori del passato − una mummia egizia, La zattera della Medusa di Géricault, La Libertà che guida il popolo di Delacroix, la Gioconda, L’incoronazione di Napoleone di David, Napoleone attraversa le Alpi di Delaroche −, nelle sontuose sale del museo si aggirano come spettri (quasi a suggerire che dietro la grandezza c’è sempre la violenza) quei personaggi-simbolo che, spargendo sangue e infliggendo lutti, hanno fatto superba la Nazione: Marianne (Johanna Korthals Altes), l’emblema della Repubblica, che sussurra le parole d’ordine della Rivoluzione, e Napoleone (Vincent Nemeth), che − mentre ammira le opere arrivate al Louvre grazie alle sue campagne militari − orgoglioso afferma: «Sinon pourquoi j’aurais fait la guerre, si ce n’est pour l’art?» (Perché mai avrei fatto la guerra, se non per l’arte?).

C’è molto in Francofonia. C’è Parigi, splendidamente ripresa dall’alto grazie ad inquadrature a volo d’uccello e rievocata attraverso immagini d’epoca. C’è l’Europa, con la sua arte e le sue guerre. C’è il Louvre, ma ci sono anche l’Ermitage di Pietroburgo, minacciato dalle bombe tedesche durante l’assedio di Leningrado, e il destino crudele che i nazisti riservarono alle popolazioni e alle opere d’arte nell’Est. C’è, sullo sfondo, la Francia di Vichy, e le contraddizioni di due uomini − Metternich e Jaujard, un aristocratico tedesco e un repubblicano francese − che all’obbedienza agli ordini anteposero una solida concretezza umanistica. Ci sono i volti del Louvre, frutto di una ricerca − l’arte del ritratto − che solo l’Occidente (e non è un caso, sembra voler suggerire il regista) ha coltivato − «Chi sarei stato se non avessi potuto vedere gli occhi di coloro che vissero prima di me?» si chiede infatti Sokurov −. Ci sono l’insensatezza e i cupi terrori della guerra.

Ma, passando attraverso tutta una serie di associazioni di idee e di immagini (esaltate da un abile dosaggio, in fase di montaggio, tra stacchi e dissolvenze), c’è soprattutto − protagonista − la forza della Storia. Ovvero il tema della precarietà dell’esistenza umana, cui l’uomo da sempre cerca di sfuggire plasmando immagini e divinità a suo sostegno, innalzando città e templi, celebrando se stesso con i capolavori del proprio ingegno. Che cos’è l’arte se non il mezzo − altissimo − attraverso il quale l’uomo si illude di non morire, e di durare attraverso i secoli? Si può anche vivere nell’illusione − Sokurov afferma, a un certo punto, che «la mano crea la forma, prima del pensiero» −. Ma la verità non può essere occultata a lungo. Non dimentichiamo, infatti, le parole iniziali del regista: l’uomo è circondato da un oceano, e ha un oceano in sé. Alla fine il cargo in mezzo al mare si inabissa, e la tempesta vince. Sempre.

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