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Diario Europeo n. 20
Penso che tutti ricordino questa espressione: “rimetti a noi i nostri debiti”. Forse pochi sanno che nella lingua tedesca esiste uno solo termine (“Schuld”) per entrambi i significati: il debito e/o la colpa.
Oggi, Diario europeo, ha l’obiettivo di fare un breve affresco su alcuni fondamenti culturali (il pensiero, la filosofia, la teologia “politica” in questo caso) che stanno dietro a precise concezioni dell’economia e anche a precise impostazioni e comportamenti di politica economica; e, in generale, dello “spirito” (Geist) che popoli e culture mettono alla base dei loro specifici modi di intendere (e attendere) le relazioni e/o le integrazioni, tra culture e tra Stati. Anche quella europea.
Lo facciamo presentando al lettori e alle lettrici due libri: “Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo”, di Elena Stimilli, ed. Quodlibet, 2011, e “Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione”, di Marc Jongen (a cura di); edizione italiana a cura di Stefano Franchini; postfazione di Paolo Perticari. ed, Mimesis, 2011.
Il primo è una ricerca molto impegnativa, densa e documentata, sulle “radici di un fenomeno che investe l’esistenza e di ciascuno tanto dal punto di vista individuale che da quello collettivo: l’essere in difetto, in colpa, in debito”.
Per dare conto, con la brevità necessaria di un “Diario”, della indagine di Elena Stimilli, parto da quelli che a me sembrano costituire i due poli (e anche le due chiavi) dello studio.
Il primo: “Numerose sono state le interpretazioni che hanno adottato un paradigma ‘sacrificale’ come chiave di lettura privilegiata dell’epoca moderna e delle sue forme di potere. La rinuncia di parte delle libertà individuali per la conservazione della vita è stata individuata all’origine della costituzione dello stato nazionale.” (ivi, p. 9). In questo polo vige il “principio di realtà” : spesso si è visto nella civiltà moderna una sorta di compenso in cambio del prezzo pagato per la repressione delle libertà individuali.
Il secondo polo: “Un’istanza di prestazione tende sempre più a prendere il posto del principio di realtà e l’adeguazione assoluta dei desideri alla logica competitiva del profitto si impone come condizione dell’affermazione di sé” (ivi, p.10). Il grande Lacan chiama questo vissuto: “discorso del capitalista”. E la Stimilli osserva che “nell’epoca della globalizzazione (la nostra) il potere ha assunto la forma dell’economia”.
Tutta la ricerca di Elena Stimilli tende a ricostruire le basi analitiche e concettuali (filosofiche, economiche e teologiche) tra questi due poli o chiavi della costruzione sia di un Pensiero, sia delle Formazioni sociali.
I passaggi sono quelli noti anche al grande pubblico e quelli noti prevalentemente agli studiosi.
Noto è lo studio di Max Weber, quando (“L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” – 1905) egli – andando oltre i suoi predecessori Werner Sombart o Lujo Brentano – individua la premessa storica dello spirito capitalistico non negli ebrei ma nel calvinismo, che cerca nel “mondo” e nella stessa attività economica i “segni” della grazia. Di qui il singolare rapporto che vede quella forma religiosa e la mentalità economica del capitalismo che si presenta, agli occhi di Weber come qualcosa di “unico”, proprio per la peculiare razionalità a cui dà vita nell’economia capitalistica: l’accumulazione che diviene, qui, un fine in sé (cfr. pp.249-50). Precisa e chiarisce Stimilli: “In questa ricerca non solo proverò a dimostrare un’attualità della tesi di Weber che esuli dalla sua possibile affinità con il modello sacrificale; ma soprattutto cercherò di indagare i fondamenti antropologici della pratica ascetica, con particolare attenzione all’ascetismo cristiano, nella convinzione che un simile percorso possa portare un contributo anche per una lettura del presente” (p. 10).
Non può mancare in questa indagine la lettura del famoso frammento giovanile di Walter Benjamin (intorno al 1921) intitolato: “Il capitalismo come religione”. Stimilli riporta per intero il brano (compreso gli appunti allegati dove Benjamin parla pure dell’arte “confrontando le immagini dei santi di diverse religioni da un lato e l’ornamento delle banconote di diversi Stati dall’altro”). Noi ci limitiamo ad alcuni passaggi: “Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento di quelle stesse preoccupazioni, di quelle pene e inquietudini a cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni”. Continua un po’ oltre. “Tre tratti al presente sono riconoscibili in questa struttura religiosa del capitalismo: (stiamo molto riassumendo) 1) il capitalismo è una religione cultuale, forse la più estrema mai esistita (…); 2) la durata permanente del culto…qui non c’è nessun giorno feriale, nessun giorno che non sia giorno di festa nel senso terribile del dispiegamento di tutte le pompe sacrali, dell’estremo impegno dell’adorante. 3) in terzo luogo è generatore di colpa, indebitante (verschuldenden). Il capitalismo con ogni probabilità è il primo caso di culto che non redime il peccato (entsuhnenden), ma generatore di colpa (verschuldenden” (ivi, p. 177). Si noti il termine “schuld” usato sia per colpa che per debito.
Venendo più vicino ai nostri giorni, altri autori hanno analizzato il collegamento tra economia e religione/fede cristiana. Il riferimento è al filosofo-teologo laico, Giorgio Agamben che ha intrapreso una approfondita indagine sulle radici cristiane dell’economia e della “governabilità” moderna (cfr. “Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo”, Neri Pozza, Milano 2007). “Il paradigma teologico della trinità e la elaborazione patristica (primi secoli dell’era cristiana) della ‘economia della salvezza’ vengono da lui individuati all’origine dell’attuale governo economico degli uomini e del mondo” (ivi, p. 13). Naturalmente, la lettura di Paolo e delle sue lettere sono centrali nella indagine di Giorgio Agamben; si veda il suo bellissimo testo: “Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai romani”, Bollati Boringhieri, Torino 2000): trascrizioni ed elaborazioni da una serie di seminari post universitari (1998-1999), tra Parigi, Verona, Evanston, Berkeley): per “restituire alle Lettere di Paolo il loro rango di testo messianico fondamentale dell’Occidente” (ivi, p. 9). Nella sua analisi, Agamben collega Paolo a Benjamin, nelle cui tesi “Sul concetto della storia “ (uno degli ultimi scritti di Walter Benjamin, quasi un testamento) egli rintraccia diversi passi – assimilati senza essere citati- dalle Lettere di san Paolo. A tale proposito non si può dimenticare l’insegnamento fondamentale di Jakob Taubes, con le sue “Lezioni” dal 23 al 27 febbraio 1987, tenute alla Evangelische Studiengemeinschft di Heidelberg, ora pubblicate in: “La teologia politica di san Paolo”, Adelphi, Milano 1997).
Il secondo testo (soprattutto, l’evento!) che vogliamo brevemente presentare è un “Simposio” svoltosi in Germania nel luglio del 2005 e pubblicato dall’editore tedesco nel 2007; in Italia nel 2011.
Presentando e introducendo con un apposito saggio (16 febbraio 2011) il volume ai lettori italiani, Stefano Franchini (università di Bologna) scrive: “dobbiamo innanzitutto avvertire il lettore italiano circa l’importanza che, in questa occasione, rivestono le date” (ivi, p. 7). (E qui certamente i lettori e le lettrici accentueranno la loro attenzione!). Il “Simposio” ha avuto luogo, infatti, appena prima che scoppiasse (nell’agosto del 2007), nel cuore della finanza mondiale – gll Stati Uniti- il caos economico della crisi sistemica ancora oggi in corso: il 12 settembre 2007, la Northern Rock Bank rivelò alla Banca d’Inghilterra il proprio stato di decozione finanziaria: seguì il panico dei risparmiatori e la corsa agli sportelli, fino al 22 febbraio 2008, quando la Rock Bank fu nazionalizzata e il suo debito entrò a far parte del debito pubblico inglese. E’ in quell’istante che la crisi finanziaria entrò ufficialmente in Europa. In seguito il 15 settembre del 2008, con la bancarotta della Lehman Brothers, il dominio globale della crisi bancaria iniziò ovunque a esercitare i suo effetti travolgenti (cfr. p. 7-8).
Ascoltiamo, ora, dalla registrazione orale, alcuni passaggi dell’apertura del simposio: “Il capitalismo divino, colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione” , tenutosi il 14 luglio 2005, con inizio alle ore 20.
“Signore e signori (è Marc Jongen che apre), un cordialissimo benvenuto al simposio intitolato “Il capitalismo divino”, che la Staatliche Hochschule di Karlsruhe presenta stasera (…) Alcuni dei presenti si chiederanno se non sia meglio dire: “il capitalismo diabolico” (….). Con il nostro titolo non vogliamo proporre un’apologia del capitalismo. Quest’ultimo non ne ha certo bisogno, poiché questa apologia si verifica, semplicemente e senza tanti discorsi, in occasione di ogni bonifico bancario (…). Per andare al nocciolo della questione, la tesi di Benjamin afferma che il capitalismo non è solo scaturito da una mentalità religiosa – come ha illustrato Max Weber, in termini ormai classici, nel suo celebre studio “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – ma è esso stesso, da cima a fondo un fenomeno religioso. (…) Vogliamo dunque discutere le seguenti questioni: a) se il capitalismo sia effettivamente un “oppio dei popoli”, per dirla con Kar Marx, ancora più efficace di quanto lo sia stato la religione; b) come esso trasformi gli esseri umani, quali strutture sociali e caratteriali produca; c) e infine se sia davvero così privo di alternative, come suggerisce l’utilizzo dell’aggettivo “divino” (. ….). Alla mia destra , Jochen Horisch, professore di Letteratura tedesca e analisi dei media all’università di Mannheim; accanto a lui, Thomas Macho, professore di scienza della cultura alla Humboldt-Universitat di Berlino; seguono: Boris Groys, professore di filosofia e scienza dell’arte a Karlsruhe, Peter Sloterdijk, professore di filosofia e rettore della medesima Hochschule (e autore di, “Il mondo dentro il capitale”, una trilogia nella quale Sloterdijk ha descritto una sorta di metamorfosi di Dio; il titolo originale era: “Nell’interno mondano del capitale”, pubblicato in Italia dalla Meltemi, Roma 2006); e infine Peter Weibel, artista e teorico e non da ultimo professore del Centro per l’arte e le tecnologie mediatiche (ZKM)”.
Abbiamo voluto soffermarci su questo parterre di prim’ordine per dare il senso vero e concreto della profondità e risonanza che in Germania, questo tipo di indagine ha nella cultura in generale e nell’ambiente sociale. Non, quindi, discorsi di qualche economista deluso, ma “pensiero autentico”. A prescindere dalla condivisione o meno che di esso si possa avere. Scrive molto sinteticamente ed efficacemente, Paolo Perticari, nella sua Postfazione: “Di fronte a un mondo che costruisce ogni giorno nuove forme di disperazione, e dunque alla smisurata complessità che è la cifra della Crisi globale, la grande filosofia tedesca torna, dopo Kant, Hagel, Fichte e Shelling, dopo Marx d Weber, dopo Adorno e Benjamin, dopo Blumenberg, Schmitt e Taubes (…)”. (E anche la nostra memoria non può, con un lampo, non tornare ai libri di filosofia e agli studi giovanili!).
Ora, Diario, però, vorrebbe tentare di trarre da queste informazioni e approfondimenti, qualche “lezione” sui diversi versanti del dibattito/conflitto politico europeo.
Evochiamo subito la magica parola “Flessibilità”; poi, quelle di “Debito sovrano”. Lo facciamo in modo schematico per ridurre il più possibile l’ampiezza del “Diario” odierno.
La “flessibilità”, è la prassi, invocata e praticata, di governo dei bilanci pubblici degli Stati membri della Unione tesa a ‘bilanciare’ la crescita (occupazione e investimenti) con la stabilità dei conti pubblici. Tenendo nello sfondo la riflessione culturale sopra riassunta, sono almeno due gli approcci che si confrontano, anche aspramente ogni giorno. Uno è questo: flessibilità come “incentivo”, per guadagnare tempo e fare riforme che consentano quelle trasformazioni di sistema finalizzate a “fare integrazione” dei sistemi economici-istituzionali-sociali della Unione. La parola chiave è “convergenza” (si legge nel Preambolo del Trattato: “Decisi a conseguire il rafforzamento e la convergenza delle proprie economie…”). E nel background culturale non scatta la visione “sacrificale”, bensì quella del “successo”. L’altro è questo: flessibilità come “concessione”, remissione di una colpa. La parola chiave è “solidarietà” concessa, bonariamente o pesantemente. A volte anche come forma di ricatto: tenerti buono e sottomesso su altri negoziati e/o interessi. Va da sé che questa la si può invocare e concedere una-tantum. Di per sé, questo approccio non crea “più integrazione”; è soltanto un’attesa di ravvedimento. Come? Attraverso pratiche di “rinuncia”, “tagli”, “privazioni”: che possono manifestarsi anche con forme di indebolimento politico nel consesso generale dell’Unione.
Anche di fronte ai “Debiti sovrani” (il debito pubblico degli Stati; l’Unione europea, come tale non ha un Debito pubblico!) vale la stessa sequenza sopra ricostruita. Se esso è una “colpa” da cui emendarsi, vale soltanto l’approccio “sacrificale”: sacrifici di ordine sociale e altri per ripagare il debito. E’ l’approccio “religioso”, a cui si contrappone l’approccio “governista-laico”: un mix di prassi (rigore, consolidamento nel tempo, ecc.). La parola chiave, anche qui, è “convergenza”, non la domanda (la supplica) di “solidarietà”.
Sia nel caso della flessibilità che del governo del debito, la Storia offre numerose e diverse soluzioni. Oltre che alla molteplicità delle teorie economiche bisogna sempre ricorrere alle tradizioni e ai contesti culturali per capire perché non si fanno determinati percorsi e se ne fanno altri.
Le tappe della costruzione degli Stati Uniti, ad esempio, hanno visto, prima la costituzione di un debito comune e solo dopo aver istituito il Debito Federale, fu istituita una moneta comune e fu avanzata la proposta dal ministro del Tesoro, Hamilton, di una Banca centrale (che fu però istituita solo più di cento anni dopo, nel 1913). Il fatto di avere un solo debito rafforzò molto i poteri del nuovo stato federale.
Le tappe della storia dell’Unione Europea sono, come è noto, in ordine inverso: è stata creata una moneta comune (e una banca centrale), prima e senza (ancora oggi) il Debito Europeo Comune. L’escamotage del pareggio di bilancio inserito nelle Costituzioni dei singoli Stati membri come garanzia che questi ultimi tengano i conti in ordine non è risolutivo, senza che l’Unione abbia un debito comune né capacità di spesa e di tassazione (cfr. La Voce info).
In questi giorni è stato reso pubblico un rapporto sulla “Sostenibilità delle finanze pubbliche” in Germania, al 2055. Uno studio riservato al ministro delle finanze. Vengono delineati due scenari, sulla base dell’andamento di due variabili: il tasso di natalità (basso) e l’aspettativa di vita (sempre più lunga) e il flusso di migranti (auspicato in crescita).Il primo scenario (il più cupo) evidenzia la necessità di una correzione del debito sovrano (di uno stato che si gloria di averlo azzerato) pari a circa 110 miliardi di euro. Il secondo (meno cupo) di circa 35 miliardi.
Da queste contraddizioni è urgente uscire. E si può farlo: con più Europa, non disfacendo l’incompiuta che c’è. Colpisce molto negativamente che per reimpostare questo impianto nessuna Istituzione assuma una iniziativa vera e compiuta, fino in fondo: non il Consiglio europeo (cioè i Governi e/o gli Stati), non la Commissione e neppure – e ciò particolarmente rattrista – il Parlamento. Soltanto il Comitato economico e sociale europeo ha – da qualche anno- perseguito la strada di analisi e pareri su queste cruciali problematiche (si vedano, ad esempio, i Pareri del consigliere italiano Carmelo Cedrone: eesc.europa.eu).
Un’ultima notazione, per concludere sul tema da dove siamo partiti.
I lettori e le lettrici di Diario europeo, ricorderanno quanta discussione e anche un vero conflitto ideologico e politico, si ebbe al momento della redazione del Trattato sull’Unione europea, a proposito dell’inserimento nel Preambolo del rimando esplicito alle “radici cristiane o giudaico-cristiane dell’Europa”.
L’equilibrio fu trovato nella attuale espressione: “eredità culturali, religiose ed umanistiche dell’Europa”.
Alla luce della ricostruzione sopra effettuata, possiamo affermare che la resistenza alle pressioni confessionali sia stata molto saggia e lungimirante.
Nel suo breve frammento – “Kapitalismus als Religion” – Walter Benjamin ci ha lasciato questo duro e urticante monito: “In Occidente, il capitalismo – come dev’essere dimostrato non solo nel caso del calvinismo, ma anche degli altri orientamenti cristiani ortodossi – si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, tanto che, alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita”.