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di Maria C. Fogliaro
«Nei rapporti sociali, David aveva il dono della caffeina: era di una vivacità affascinante, intensa, travolgente − agli interlocutori faceva l’effetto di una sorsata di caffè: perciò quelli sono stati i cinque giorni più insonni che io abbia mai passato con qualcuno». Così scrive David Lipsky in Although Of Course You End Up Becoming Yourself: A Road Trip with David Foster Wallace (2010) [trad. ita.: Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, Minimum Fax, 2011, pp. 443, euro 18,50]. Di quei giorni intensi e irripetibili racconta The End of the Tour (USA, 2015, 106’), presentato in anteprima al Sundance Film Festival del 2015.
Quando una telefonata comunica a David Lipsky (un sicuro Jesse Eisenberg) il suicidio di David Foster Wallace il 12 settembre del 2008, questi − prima incredulo, poi profondamente addolorato − si mette alla ricerca dei nastri di una sua vecchia (e mai pubblicata) intervista fatta al grande scrittore nel 1996, durante la fase finale del tour di presentazioni per Infinite Jest − il romanzo «spiazzante e dirompente» che ha catturato «il suono di una generazione», e che ha reso celebre lo scrittore americano al grande pubblico −. Inizia da qui il lunghissimo flashback sul quale è incentrato tutto il film diretto da James Ponsoldt, e che Donald Margulies ha adattato dal libro-intervista di Lipsky.
È il 5 marzo del 1996, e David Lipsky − giornalista e scrittore newyorkese allora ancora agli esordi, autore di un romanzo, The Art of Fair, di scarso successo − viene inviato dalla rivista «Rolling Stone» a Bloomington (Illinois), dove vive − da solo, in una grande casa, con i due amatissimi cani − David Foster Wallace (un bravissimo Jason Segel). L’incontro fra il giornalista in cerca di informazioni e di una storia da raccontare e lo scrittore, da poco diventato oggetto di culto al pari di una rockstar, si rivela un vero viaggio esistenziale, che, in quanto tale, è dotato di una forza incomparabilmente superiore.
David Lipsky non è un banale intervistatore, ma si rivela un attento osservatore, con speciali doti di comunicazione e di penetrazione psicologica. Dal suo viaggio con Wallace – in macchina su una Grand Am verde bosco presa a noleggio o in volo da uno Stato all’altro del Paese, in stanze anonime di alberghi o in qualche caffè di passaggio – il giornalista newyorkese riesce a comporre il ritratto di un genio empatico – mai scostante o incomunicabile -, dotato di «un talento naturale per i rapporti umani», un individuo «che cerca di interpretare le persone»; del «professore ideale, quello che uno spera sempre di incontrare»; di un uomo mite, divertente, innocente, ma intimamente fragile. Un’intelligenza vivacissima, capace di confrontarsi con problemi complessi – dalla letteratura al cinema, alla televisione, alla cultura, alla società -, ma anche incline a soccombere alle proprie inquietudini e a precipitare nella notte della depressione.
Sollecitato dalle domande di Lipsky, Wallace descrive il suo difficile rapporto con il successo, le sue angosce profonde e, in particolare, l’ansia che gli provoca il non potere gestire direttamente l’immagine che di lui viene veicolata dai media. Egli si vede sotto la minaccia della fama e dei meccanismi della macchina promozionale, la cui potenza sa esattamente valutare. Gli scrittori hanno infatti la licenza e la libertà – afferma Wallace – di «rendersi mostruosamente consapevoli delle cose che noi in genere percepiamo solo fino a un certo punto». Lucido osservatore dell’anima più profonda dell’America, David Foster Wallace vede nella «dipendenza» la modalità principale con cui la cultura americana si relaziona a tutte le cose viventi, e naturalmente nella tecnologia il mezzo di seduzione più potente – tratteggiando, insomma, il quadro di una società infantile, cui toccherà prima poi autodisciplinarsi, pena l’autodistruzione -. Quello che The End of the Tour porta in scena è quindi la figura di un narratore estremo, in grado cioè di pensare le estreme conseguenze sul piano logico degli schemi fondanti il mondo che tutti noi abitiamo.
Il film si regge interamente sulla capacità recitativa degli attori – che danno vita con bravura e credibilità a scene divertenti, intense e commoventi – e sulla emozionante colonna sonora curata da Danny Elfman. Inoltre, in alcuni passaggi – come quando stanno affrontando in auto serie riflessioni sull’intrattenimento, ascoltando i R.E.M., bevendo Diet Pepsi e mangiando junk food – riecheggiano i moduli di quel grande topos della vita americana che è il viaggio On the Road. Come dichiara esplicitamente Lipsky: «È facile dimenticare che sto lavorando; mi sembra più di fare un viaggio in macchina con un amico». E come in tutti i viaggi, alla fine è difficile salutarsi.
L’ultima sequenza ci mostra un David Foster Wallace che balla, felice, in una chiesa battista. «È una chiesa battista nera – dice David nel libro di Lipsky -, ma ci viene un sacco di gente, perché i battisti neri ballano da dio».