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Mai arrendersi, mai dimenticare la lotta

di Maria C. Fogliaro

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In una lavanderia − la Glasshouse − di Londra, un esercito di donne lavora a testa bassa, in un ambiente pericoloso e insalubre, per pochi scellini al giorno. È lì − fra i vapori venefici e le molestie del proprietario − che dall’età di sette anni lavora anche Maud Watts (una efficace Carey Mulligan), una giovane donna, sposata con Sonny (Ben Whishaw) e con un bambino piccolo da accudire. Anche la madre di Maud aveva lavorato nella stessa lavanderia, prima di morire − quando lei aveva solo quattro anni − per le ustioni riportate in seguito al ribaltamento di una vasca. Lavorare al tempo dello sfruttamento paleocapitalista è dura, ma essere donne e lavoratrici lo è ancor di più.

Siamo nel 1912. Le donne in Inghilterra lavorano a tempo pieno − quanto e spesso più degli uomini −, ma non hanno ancora il diritto di voto. La battaglia per l’emancipazione femminile, iniziata già alla fine del Settecento, si trova davanti a un turning point. Le difficoltà nell’imporre la propria agenda e l’incapacità del comitato parlamentare, creato nel 1910 durante il governo liberale guidato da Herbert Henry Asquith, di produrre un testo sul suffragio femminile porta alla progressiva radicalizzazione della protesta da parte delle associazioni che si battono per il voto alle donne. In particolare, la Women’s Social and Political Union (Wspu), guidata dalla carismatica Emmeline Pankhurst (Meryl Streep, in un ottimo cameo), dà inizio a una campagna sempre più violenta all’origine della cosiddetta «guerra delle vetrine», che vedrà le suffragette assaltare negozi ed edifici pubblici, disperdere la posta e avviare azioni di protesta ricorrendo anche all’uso di bombe a basso potenziale − a cui il governo risponderà con l’arresto delle manifestanti e con l’alimentazione coatta di quelle che avevano iniziato lo sciopero della fame −. «Al momento attuale − si può leggere in un articolo apparso nel 1913 sull’autorevole rivista «American Political Science Review» − né la prospettiva dell’Home rule per l’Irlanda né il pericolo tedesco, né il possibile disegno di costruire una federazione nell’impero colpisce l’opinione pubblica in Inghilterra con tanta insistenza come la richiesta di diritto di voto alle donne». In questo clima storico, politico e sociale si colloca la vicenda di Suffragette (Gran Bretagna, 2015, 106’), il film scritto da Abi Morgan e diretto da Sarah Gavron.

Ancora inconsapevole dei propri desideri e delle proprie forze, Maud − seguendo la compagna di lavoro Violet Miller (Ann-Marie Duff) − si avvicina progressivamente alla Wspu fino a entrare da protagonista nella storia del movimento. Per una serie di circostanze non programmate, la giovane lavandaia si trova a parlare davanti a Lloyd George (Adrian Schiller) − Cancelliere dello Scacchiere dal 1908 al 1915, che si sta occupando di un emendamento al disegno di legge che potrebbe condurre al voto alle donne −, prendendo coscienza della potenza insita nel progetto che la Wspu sta portando avanti: è «l’idea − dice Maud − che c’è un altro modo di vivere questa vita». Da quel momento la riservata ventiquattrenne vivrà una trasformazione personale radicale che la porterà, a dispetto di tutto e di tutti, ad abbracciare totalmente la causa dell’emancipazione femminile. Ma il prezzo per diventare «ciò che si è» può essere molto alto: Maud verrà isolata, vivrà l’inferno del carcere e, soprattutto, perderà quanto le è di più caro al mondo.

In questo film Sarah Gavron fa di Maud Watts il simbolo di un movimento femminile che trae la sua forza dal basso, pur affiancandole − da protagoniste − nella lotta donne distanti per cultura e status economico-sociale: la indomita e coraggiosa farmacista Edith Ellyn (una Helena Bonham Carter di grande presenza), appoggiata attivamente e amorevolmente dal marito Hugh (Finbar Lynch), farmacista anche lui, finito due volte in prigione per favoreggiamento delle attività della moglie; Alice Haughton (Romola Garai), la ricca moglie di un deputato; Emily Wilding Davidson (Natalie Press), che nel 1913 si immolerà per la causa facendosi travolgere da un cavallo durante una manifestazione al Derby di Epsom alla presenza di Re Giorgio V. Le suffragette vinsero la loro battaglia sei anni più tardi − rispetto ai fatti narrati nel film −, ottenendo nel 1918 il diritto di voto limitato alle mogli dei capifamiglia al di sopra dei trent’anni e, infine, il 2 luglio 1928 l’estensione del suffragio a tutte le donne.

Il film cade ogni tanto nel celebrativo − cosa spiegabile data l’importanza del tema portato in scena −, ma può contare sulla bella fotografia di Eduard Grau e soprattutto sulla bravura espressiva degli attori, fra i quali si segnala Brendan Gleeson nei panni di Arthur Steed, esperto di ordine pubblico e di sicurezza nazionale.

A settant’anni dal voto alle donne in Italia, ripercorrere gli avvenimenti legati alle battaglie che tante donne coraggiose e fiere hanno combattuto per se stesse e a beneficio delle future generazioni può essere utile per ricordare innanzitutto che i diritti sono «storici» e quindi frutto di conquiste, ma anche che il dilemma della giustizia della legge è sempre vivo, come si evince da una perentoria osservazione espressa all’inizio del film: «Vuoi che io rispetti la legge? Allora voglio una legge che rispetti me».

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