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di Maria C. Fogliaro
A Hollywood, negli anni Cinquanta, c’è un direttore di produzione insostituibile. Si chiama Eddie Mannix (un fantastico Josh Brolin). È fervente cattolico, innamorato della propria famiglia e completamente dedito al lavoro. Ma, soprattutto, Eddie è il fixer − il risolutore di problemi − della Capitol Pictures.
Assistito dall’efficientissima segretaria Natalie (Heather Goldenhersh) − il sogno dei capi più seri ed esigenti −, Mannix è l’uomo che salva carriere e vite private di divi capricciosi e irresponsabili, e risolve ogni tipo di problema che possa nascere dentro o fuori gli Studios, tenendo a bada la pettegola stampa sempre in cerca di uno scandalo. Ad esempio lo vediamo imporre – per soddisfare le richieste di un boss della major per cui lavora – l’attore di film western Hobie Doyle (Alden Ehrenreich) − bravo a cavalcare, ma incapace di recitare − come protagonista di un film in costume al sofisticato regista Laurence Lorentz (un Ralph Fiennes che si ispira a Vincente Minnelli). Poi, si precipita sul set della diva−sirena DeeAnna Moran (una magnifica Scarlett Johansson) per convincerla a sposarsi, per non causare un danno alla propria immagine, dal momento che aspetta un bambino. Inoltre, poiché gli Studios stanno girando un kolossal dal titolo Ave, Cesare! − che racconta una storia sul Cristo e che ha per protagonista un tribuno romano interpretato dalla star Baird Whitlock (George Clooney) − Mannix, che è un uomo serio con una visione alta del proprio lavoro (totale è infatti la sua dedizione al «sistema»), organizza un incontro fra un prete cattolico, un ortodosso, un protestante e un rabbino per accertarsi che il film non scontenti nessuna fede. Per stare più vicino alla famiglia e allontanarsi da un mestiere che impegna le sue forze senza un attimo di tregua, Eddie sta tuttavia valutando la possibilità di accettare la proposta di lavoro della Lockheed e di lasciare gli Studios.
Inaspettatamente, però, Mannix si trova di fronte a un caso difficile: Baird Whitlock è scomparso proprio prima di girare la scena finale, e più importante, del film. Non si tratta di una banale fuga volontaria cui sarebbe facile porre rimedio: la star, infatti, è stata rapita, come si vedrà, da un’organizzazione che si fa chiamare The Future, che chiede un riscatto di centomila dollari per liberarla.
Inizia così Ave, Cesare! (Hail, Caesar!, USA, 2016, 106’), l’ultimo esilarante film di Joel e Ethan Coen, attraverso il quale i due fratelli di Minneapolis costruiscono con abilità e leggerezza una critica a tratti grottesca dell’industria cinematografica e delle sue interne contraddizioni, e − contemporaneamente − testimoniano un grande rispetto e un amore affettuoso e forse nostalgico per l’età d’oro di Hollywood − potendo contare sull’apporto prezioso di un maestro della fotografia come Roger Deakins, sulla bella colonna sonora di Carter Burwell e sulla prestazione inappuntabile dello scenografo Jess Gonchor, che ha lavorato sul materiale d’archivio per restituire l’ambiente degli Studios il più possibile fedele all’originale −.
La rappresentazione del «circo» che sta dietro al cinema e che ne è parte imprescindibile − con le sue ipocrisie, la sua vacuità, le sue star cialtronesche e fatue, regine (ma in realtà pedine) di un mondo infantilmente semplice − è il pretesto narrativo di cui si servono i due registi per mostrare le contraddizioni di un’epoca apparentemente ingenua e sempliciotta, ma interamente dominata dalla forza di penetrazione, anche psicologica, della macchina capitalista fordista, e dalla guerra fredda (mentre l’ombra lunga del maccartismo scatena una paranoia sociale che fa vittime soprattutto a Hollywood, il luogo di costruzione della narrazione della potenza americana).
Ma tutto è raccontato alla maniera dei Coen, cioè con intelligenza e ironia. Ogni elemento si incastra alla perfezione in quest’opera, che è soprattutto − anche per le continue citazioni e i rimandi a film e protagonisti della vecchia Hollywood − un omaggio al cinema e a un’epoca immortalati proprio nel momento in cui stanno per tramontare. Vengono così tratteggiati scene e personaggi difficili da dimenticare: la collaborazione senza speranza fra il regista Laurence Laurentz e Hobie Doyle (che nonostante la sua semplicità si rivelerà fondamentale per l’intreccio narrativo); la rivalità acrimoniosa fra le due gemelle regine del gossip, Thora e Thessaly Thacker (Tilda Swinton), dietro le quali non è difficile intravedere (oltre alle gemelle Ann Landers e Abigail van Buren) la figura di Hedda Hopper, che negli anni del maccartismo denunciava dalla sua rubrica sul «Los Angeles Times» le “spie rosse” che si annidavano a Hollywood; il tip tap di Burt Gurney (Channing Tatum), un omaggio a Gene Kelly; la bellissima ma un po’ volgare DeeAnna Moran, ispirata alla celebre campionessa di nuoto e attrice Esther Williams; la scena paradossale con Frances McDormand che rischia di morire soffocata mentre monta una pellicola; il cagnolino Engels; ma, sopra tutti, l’esilarante dialogo teologico sulla natura di Cristo e la fantastica cospirazione degli sceneggiatori comunisti, che − sfruttati dal capitale − si immaginano come l’avanguardia di mondo nuovo sotto la guida di un improbabile Marcuse.
In un rapporto di dissacrante ironia e di affettuosa serietà rispetto alla fabbrica hollywoodiana dei sogni – un mondo di apparenze che è anche profondamente umano – Ave, Caesare! è un film ambiguo come lo sono la vita, la memoria, i sentimenti. La vita esiste solo nella narrazione (l’ironia); e la narrazione è vita densa e vera (questa è la affettuosa serietà): questo è il paradosso che i fratelli Coen ci presentano con maestria e divertita leggerezza, dicendoci anche, nel finale, che da questo paradosso non si può uscire.