Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone
di Maria C. Fogliaro
La presentazione a Bologna il 13 aprile − presso la Biblioteca dell’Archiginnasio − della nuova edizione del libro di Sergio Romano, La quarta sponda. Dalla guerra di Libia alle rivolte arabe (Milano, Longanesi, 2015, pp. 326), ha dato vita a un illuminante confronto fra l’Autore (storico, ex ambasciatore e giornalista), Lucio Caracciolo (direttore di «Limes») e Giuseppe Cucchi (Generale della riserva dell’Esercito e consigliere scientifico di «Limes»), i quali − partendo dagli interessi storici dell’Italia in Libia − hanno principalmente discusso della situazione libica attuale, con particolare riferimento ai riflessi sistemici che il caos in cui versa il Paese sta producendo sia sul versante mediterraneo sia sulla regione saheliana, e alle prospettive di riuscita del piano di pace elaborato il 17 dicembre scorso per porre termine alle ostilità fra le diverse fazioni che da cinque anni si contendono il governo del territorio. L’incontro è stato organizzato dalla rivista «Pandora», in collaborazione con il «Limes Club Bologna», la Biblioteca dell’Archiginnasio e la casa editrice Longanesi.
Il libro − la cui prima edizione risale al 1977 − è centrato sulla guerra italo-turca del 1911-12 e sull’occupazione italiana delle due province ottomane in Africa settentrionale, la Tripolitania e la Cirenaica, che furono unite subito dopo la conquista, ma è stato riveduto e aggiornato per consentire una migliore comprensione della storia libica fino alla caduta − anche per l’intervento militare anglo-francese-americano risultato determinante − del regime di Gheddafi nel 2011.
«Mi chiedo − ha affermato Sergio Romano − se non stiamo facendo un errore parlando di Libia, e trattando la Libia come se fosse una unità». Quello che oggi noi continuiamo a chiamare Libia − ha spiegato Romano − non è mai stata una sola realtà territoriale, ma deriva dall’unione di due entità politico-amministrative storicamente e culturalmente separate: la Tripolitania, con importanti centri urbani dalla lunga tradizione commerciale, caratterizzata da una organizzazione tribale di grande complessità; e la Cirenaica che aveva una sua struttura amministrativo-spirituale rappresentata da una confraternita islamica − la Senusiyya − che garantiva alla provincia una sorta di continuità dinastica. Pertanto, la realtà storica del territorio − completamente trascurata nella preparazione dell’intervento militare deciso da Cameron e Sarkozy nel 2011 e avviato senza, tra l’altro, aver pianificato alcuna ipotesi sull’assetto futuro del Paese − induce Romano a ritenere che «ci possono essere circostanze in cui spartire, dividere, un territorio risponde alla logica geografica, politica, storica e culturale di un Paese». Pur comprendendo i timori di chi preferirebbe una diversa soluzione − ancora memori degli avvenimenti nei territori della ex-Jugoslavia all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso − secondo Romano «il tentativo di continuare a lavorare per un governo libico in questo momento» è «tempo perduto», e non è improbabile che alla fine le divisioni territoriali precedenti alla colonizzazione italiana dovranno essere seriamente prese in considerazione.
Anche per Caracciolo c’è una continuità storica dalla quale non si può prescindere se si vuole realmente comprendere quanto sta oggi accadendo in quel territorio. In particolare − spiega il direttore di «Limes» −, ci sono almeno due prospettive da cui si può guardare alla Libia. Una è quella mediterranea a noi propria che considera la Libia la «quarta sponda» e che in realtà si riferisce solo a «una fascia costiera e desertica di poche decine di chilometri di profondità che ha i suoi punti di riferimento urbani in Tripoli e in Bengasi». Ma c’è anche una prospettiva saheliana che vede nella parte meridionale della Libia − il Fezzan −, in grandissima parte desertica, una sorta di architrave del sistema di interessi francese, e che è stata una delle ragioni probabili dell’intervento militare deciso da Sarkozy nel 2011. Per quanto riguarda il nuovo governo d’intesa nazionale guidato da Fayez al Sarraj, e sostenuto dalle Nazioni Unite, le sue possibilità di riuscita − secondo Caracciolo − sono obiettivamente limitate, ma è un tentativo «che deve essere appoggiato, perché le alternative sono tutte peggiori», e perché ricostituire un minimo di autorità istituzionale quantomeno in Tripolitania potrà se non porre immediatamente fine alla guerra civile a bassa intensità − che ha permesso, tra l’altro, l’insediamento (per certi aspetti sopravvalutato) dello Stato islamico o meglio dei suoi affiliati, che in buona parte sono ex sostenitori di Gheddafi −, almeno garantire un maggiore controllo sui flussi migratori e un miglior sostegno agli interessi di sfruttamento energetico dell’ENI.
Di fronte alla situazione di grave instabilità che si registra non solo in Libia ma anche in Iraq e in Siria, secondo Giuseppe Cucchi, bisogna prendere atto − come ha fatto l’Italia − che «il problema è uno solo e deve essere trattato unitariamente». Una volta emerso che non si può tenere lo sguardo esclusivamente rivolto verso il nord−est dell’Europa come si è fatto negli ultimi vent’anni, è necessario accettare l’idea che non si può affrontare il problema della Libia − sia dal punto di vista militare, sia dal punto di vista civile − se prima non si risolve, almeno nelle grandi linee, il problema della Siria e dell’Iraq; e che, poiché gli strumenti militari in Europa dal 1989 in poi sono stati progressivamente ridotti, dobbiamo limitarci ad azioni di determinato tipo: «Al massimo − ha spiegato il Generale − possiamo fornire un appoggio di fuoco. Ma la speranza è che questo appoggio di fuoco non sia necessario». L’Italia − ha affermato Cucchi − ha lanciato in questi mesi un importante messaggio manifestando la propria disponibilità a sostenere «qualsiasi tentativo di riportare il Paese all’unità e a una relativa tranquillità». Un tentativo che va fatto, senza tuttavia dimenticare che nel mondo in cui stiamo vivendo non si può continuare a ragionare come nel secolo scorso, poiché oggi «tutto quello che succede, ovunque succede, interessa tutti».