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La vita nuova del giudice Racine

di Maria C. Fogliaro

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Michel Racine (un intenso Fabrice Luchini) è un uomo senza mezze misure. Presidente della Corte di assise di Saint-Omer (nel dipartimento del Passo di Calais), Racine è un uomo serio, inappuntabile e instancabile nel suo lavoro, al quale è tenacemente attaccato, incurante della fatica e della sua stessa condizione fisica. In tribunale evita scrupolosamente i rapporti umani, prediligendo una condotta riservata − l’unico vezzo che si concede è una sciarpa rossa, che indossa abitualmente sugli abiti scuri portati quasi come un’uniforme −. Queste sue caratteristiche lo rendono incomprensibile e sovente insopportabile a collaboratori e colleghi, agli avvocati e alle figure anonime che popolano il tribunale di Saint-Omer, dove ormai − per la sua severità − si è fatto la reputazione del «presidente a due cifre» (per le pene che impone, mai inferiori a dieci anni), che « ama imbrigliare i dibattimenti» per − dicono i maldicenti − eccessivo protagonismo. Anche la sua vita privata è oggetto del dileggio dei ciarlieri colleghi, che lo irridono per la sua serietà e hanno diffuso la maldicenza che viva da solo in un albergo dopo essere stato cacciato di casa dalla moglie.

Ma è davvero questo, o solo questo, Michel Racine? Per chiarire la sua vicenda personale dobbiamo seguire il giudice nel suo ultimo processo. Si tratta di un caso molto difficile: Martial Beclin (Victor Pontecorvo), un uomo non ancora trentenne, è accusato di aver ucciso la figlia di sette mesi colpendola con gli anfibi. L’imputato, dopo essersi in un primo tempo autoaccusato del delitto − perlomeno secondo quanto riportato nella deposizione raccolta al commissariato di Boulogne-sur-Mer −, al processo si dichiara innocente.

All’apertura dell’udienza, ai sei giurati che decideranno sul caso vengono affiancati tre giurati supplementari, che dovranno solamente assistere a tutti i dibattimenti fino alla pronuncia della sentenza. Ma proprio quel giorno il destino ha un dono speciale per Racine: si tratta della dottoressa Ditte Lorensen−Coteret (Sidse Babett Knudsen), uno dei giurati supplementari. Da un lampo quasi impercettibile di meraviglia nello sguardo del giudice, intuiamo che il nome e il volto della donna hanno un significato, che presto si scoprirà importante, per Racine.

È l’emergere di due storie e di due differenti personalità − quella del giudice Racine e quella dell’imputato Beclin − il cuore di La Corte (L’Hermine, Francia, 2015, 98’), film diretto e scritto da Christian Vincent. All’inizio dell’udienza il presidente e i giurati sono impegnati a indagare la personalità del presunto infanticida: bisogna sapere chi è Martial Beclin, da dove viene, qual è il suo percorso. E quando l’imputato si rifiuta di rispondere a tutte le domande, proclamando ostinatamente la propria innocenza, l’indagine si concentra sulle testimonianze di chi ha conosciuto Beclin e la sua (dimessa e confusa) compagna Jessica (Miss Ming), la madre della bambina, che all’epoca dell’omicidio della piccola soffriva di depressione ed era in attesa del loro secondo figlio. Ma anche di Michel Racine, all’inizio del film, sappiamo poco o niente. Tutti pensano di conoscerlo da come si comporta sul lavoro − per la sua mente lucidissima, per il rigore etico e il carattere difficile, per i colpi di scena nei processi −. Alla fine, sia di Racine sia di Beclin, scorgiamo solo un’apparenza; ma anche qui, come nella realtà, niente è davvero quel che sembra.

E così mentre il processo si sviluppa e nelle menti dei giurati − anche per gli interventi decisivi e per la gestione rigorosa dei dibattimenti da parte del presidente della Corte − le certezze iniziali sulla colpevolezza di Martial barcollano (tanto che non si può arrivare, sulla base degli elementi raccolti, a una verità inoppugnabile), parallelamente anche su Michel Racine comincia a emergere un’altra verità. È l’incontro fatale con Ditte a gettare nuova luce sul passato, sui sentimenti e sulle emozioni del presidente della Corte, che emergerà come una figura infinitamente più complessa di quella del giudice schivo e spigoloso delineato all’inizio del film.

Christian Vincent, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura all’ultimo Festival di Venezia, costruisce una commedia delicata e intelligente, dal ritmo piacevole e necessariamente lento, che si regge tutta sull’intensità dei primi piani e sulla recitazione perfetta di Luchini − meritatissimo vincitore della Coppa Volpi nel 2015 per la migliore interpretazione maschile −, il quale riesce da solo a tenere perfettamente in equilibrio l’intero intreccio narrativo e a dare vita a un personaggio unico, davvero teatrale, serio e a tratti buffo, che per amore sarà capace di spogliarsi dei suoi modi bruschi e freddi, e rivelare un mondo interiore ricco di dolcezza e di fantasia. Ancora una volta il cinema, lanterna magica che proietta ombre, si fa carico, con rigore e impeto creativo, di rappresentare la questione delle questioni, intorno a cui ruota la nostra esistenza: la distanza fra essere e apparire, fra il volto pubblico e la profondità della nostra anima.

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