Bratislava, prove di ripartenza?
Autore : Redazione
Pubblicato il : 13-09-2016
Diario Europeo n. 36
Con tutta la buona volontà e anche senso di responsabilità – necessario quando si valuta il difficile e strategico percorso di Integrazione europea- non si sfugge ad una sensazione ricorrente: una sorta di “assenza” di Europa – le sue Istituzioni e la loro quotidiana azione – nel governo della Unione! Sappiamo che è in campo quotidianamente una complessa “macchina” comunitaria, fatta di ampie e articolate professionalità; ma quella sensazione rimane. Mentre i protagonisti reali e, nello stesso tempo, disarmonici sono gli Stati nazionali.
Cerchiamo, allora, con pazienza di riannodare le fila di un “discorso” politico e strategico. E cominciamo dal calendario, anche considerando che molte cose sonno accadute e molte idee, analisi e proposte son venute all’odine del giorno dell’agenda comunitaria.
Sul sito ufficiale del Consiglio europeo si legge che il 16 settembre i capi di Stato o di governo dei 27 si riuniranno a Bratislava, dove continueranno una riflessione politica per imprimere slancio a ulteriori riforme e allo sviluppo dell’UE a 27 Stati membri. Si tratta di una riunione informale del Consiglio europeo, quindi al di fuori delle (almeno) due riunioni previste dal Trattato nel corso di una presidenza semestrale (in questo caso tenuta dalla Slovacchia, dal 1 luglio al 31 dicembre). L’ultima volta che il Consiglio europeo (sempre in versione “informale”) si è riunito è stato il 29 giugno 2016; in quella occasione, i capi di Stato e di governo si riunirono per discutere delle implicazioni politiche e pratiche della Brexit, affermando: “Siamo determinati a rimanere uniti e a lavorare nel quadro dell’UE per affrontare le sfide del ventunesimo secolo e trovare soluzioni nell’interesse delle nostre nazioni e dei nostri popoli. Siamo pronti ad affrontare tutte le difficoltà che possono sorgere dalla situazione attuale”. Nella “Dichiarazione” ufficiale adottata il 29 giugno si legge: “Noi, capi di Stato o di governo dei 27 Stati membri, insieme ai presidenti del Consiglio europeo e della Commissione europea, ci rammarichiamo profondamente dell’esito del referendum nel Regno Unito ma rispettiamo la volontà espressa dalla maggioranza del popolo britannico. Fino a quando lascerà l’Unione, al Regno Unito e al suo interno continuerà ad applicarsi il diritto dell’UE, per quanto riguarda sia i diritti che gli obblighi. È necessario organizzare il recesso del Regno Unito dall’UE in modo ordinato. L’articolo 50 del TUE fornisce la base giuridica per questo processo. Spetta al governo britannico notificare al Consiglio europeo l’intenzione del Regno Unito di recedere dall’Unione. Ciò dovrebbe essere fatto il più rapidamente possibile. Nessun negoziato è possibile prima della notifica. Una volta ricevuta la notifica, il Consiglio europeo adotterà gli orientamenti relativi ai negoziati per un accordo con il Regno Unito. Nel processo che seguirà la Commissione europea e il Parlamento europeo svolgeranno appieno il loro ruolo in linea con i trattati”.
Diario europeo (n.35, “What now? L’Unione europea a 27 stati membri”) ha già analizzato la situazione di stallo della Unione a fronte della mancata “notifica” da parte del Regno Unito della volontà di uscire dall’Unione, la “Dichiarazione” sopra ricordata resta a tutt’oggi – e si presume anche nella futura riunione di Bratislava – disattesa: “Spetta al governo britannico notificare al Consiglio europeo l’intenzione del Regno Unito di recedere dall’Unione. Ciò dovrebbe essere fatto il più rapidamente possibile. Nessun negoziato è possibile prima della notifica”. Che fare? Stupisce – oltre ogni previsione – la “inelegante” (scorretta) prassi adottata dall’ex membro dell’Unione; desta ugualmente stupore la indeterminatezza dei “capi di stato o di governo”, membri attuali della Unione, ancora di più a seguito delle loro pur sobrie, ma almeno esplicite “Dichiarazioni”, sopra riportate.
Indigna, peraltro, apprendere che dalla Gran Bretagna l’unica solerzia manifestata è la volontà di costruire un muro lungo due chilometri, alta quattro metri attorno all’autostrada che porta all’imbarco dei traghetti per Dover e del tunnel per i treni che passano sotto la Manica, su territorio francese.(a tal fine ha raggiunto un accordo con la Francia, caricandosi totalmente la spesa). E non solo, manifesta anche un attivismo (molto “english”) sul versante di futuri “accordi commerciali bilaterali” con paesi membri della U.E. e con Paesi terzi (Australia, ad esempio, e anche con India, Corea del Sud). Steffen Seibert, portavoce della cancelliera, durante il consueto incontro con la stampa mercoledì sette ha osservato: “ la situazione è chiara: un Paese membro dell’Ue non può, finché ne fa parte, negoziare accordi di libero scambio bilaterale al di fuori della Ue”. E’ sufficiente il misurato e diplomatico commento del portavoce della cancelliera della Germania? “Diario” ritiene di no. Nel frattempo si apprende che Boris Johnson, ministro britannico agli esteri (oppositore frontale del già premier David Cameron e campione della campagna pro Brexit) chiede “ il pieno controllo dei confini”. Non è, quindi, condivisibile l’affermazione del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che “la palla è nel campo del Regno Unito”; il campo di gioco, infatti, è ancora unico, fino alla “Notifica”. Ovviamente, neppure si tratta di compiere azioni di rappresaglia; semplicemente “ricordare” al Regno Unito di compiere, rapidamente e recuperando il ritardo già maturato, tutti gli atti richiesti dai Trattati che a suo tempo ha sottoscritto (ad essere precisi e pignoli: siccome la firma in calce al Trattato della Unione Europea è di “Sua Maestà la Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord”, una lettera formale del Consiglio europeo dovrebbe essere inviata alla regina). E dunque, è necessario che, mentre i “capi di stato o di governo” si riuniscono (nella formula della informalità che non impegna la loro funzione definita dai Trattati) per delineare le attese dei loro Paesi e popoli e le risposte necessarie da parte della Unione di cui sono partecipi, il “Consiglio europeo” come tale – in modo solenne ed autorevole, sulla base degli obblighi del Trattato – compia un atto formale, da Bruxelles, per sollecitare il Regno Unito a “notificare tale intenzione al Consiglio Europeo” ( cfr art. 50, comma 2). Da parte sua, L’Unione ha completato, con la recente nomina da parte del Parlamento europeo del deputato (ex premier del Belgio) Guy Verhofstadt, a capo del suo team nel futuro negoziato. Il “trio” dell’Unione, dunque, è: Dedier Seeuws (diplomatico belga, già portavoce di Verhofstadt), capo delegazione del Consiglio, Michel Barnier, capo delegazione della Commissione (già commissario agli Affari interni e Servii finanziari) e Guy Verhofstadt. Sul versante britannico, è stato costituito un apposito dicastero per la Brexit, con a capo David Davis, uno dei leader della campagna pro Brexit ( il quale, però, è ancora alla ricerca di esperti e professionisti idonei per il suo dicastero e attende che il bilancio del suo Governo gli assegni una dotazione finanziaria adeguata per poterli pagare).
Nel frattempo risulta sempre più urgente delineare – impegnando a tale compito tutte le Istituzioni dell’Unione (Parlamento, Commissione, Parlamenti nazionali, Organismi della Società civile) – la nuova “Agenda della integrazione europea”.
I binari di questo percorso sono due, già scritti nei Trattati (“Preambolo”), ricordiamoli:
1. “Intensificare la solidarietà tra i popoli rispettandone la storia, la cultura e le tradizioni”
2. “Conseguire il rafforzamento e la convergenza delle proprie economie”
I fatti ci dicono che la tendenza dei paesi membri non va verso la “convergenza”. Nonostante la tenacia manifestata da Angela Merkel che ha voluto incontrare bilateralmente ben 13 Paesi membri della UE (appena dopo la visita in Italia, a Ventotene), le convergenze non sembrano né facili né vicine. Il punto di scontro resta la politica sulle migrazioni. Intanto sulla Porta di Brandeburgo, un gruppo (sedicente “movimento identitario”) le hanno fatto trovare uno striscione a caratteri cubitali: “Frontiere sicure, futuro sicuro”. Particolarmente aspri e persino ostili, i quattro paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria) e l’Austria (dove si tornerà alla urne il 4 dicembre per la elezione del presidente della Repubblica). L’Unione non converge neppure nell’economia, anzi le divergenze strutturali continuano ad aggravarsi. Mentre la Germania conferma il surplus commerciale (8,9% sul PIL 2016, superiore persino alle previsioni della Commissione europea, oltrepassando anche la Cina con 310 miliardi di dollari) e comunica di aver risparmiato ben 122 miliardi di euro (dal 2008 a fine 2015) in interessi sul debito pubblico (anche con il contributo delle misure prese dalla Banca federale, alla quale peraltro riserva spesso critiche ingiustificate), Eurostat fotografa questa situazione: Italia, Francia, Finlandia registrano crescita zero; il gruppo dei Paesi dell’Est dà segni di dinamismo (anche per il loro problematico punto di partenza), il resto cresce modestamente. I tassi di disoccupazione restano molto difformi: Italia 11,6% – Germania 4,6 – Francia 9.9 – Spagna 22,1 – Europa 10, 1). Come non chiedersi se gli strumenti di politica economica e monetaria comunitari attuali siano o meno adatti ed efficaci ai fini della “convergenza” richiesta e dichiarata dai Trattati? Come è noto: nessun vento è favorevole a chi non sa (o non sceglie) la direzione da prendere.
La Banca “federale”, intanto, continua – solitaria – a ricordare all’Unione che: “le misure monetarie sarebbero più efficaci se tutti i Paesi facessero le riforme strutturali e se ci fossero politiche di bilancio espansive; e che la politica fiscale più che una questione di quantità è questione di mix, che deve essere favorevole alla crescita e alla creazione di un ambiente pro-business, compresi investimenti in infrastrutture” (così Mario Draghi, nelle comunicazioni ufficiali, dopo il consiglio di amministrazione della BCE, 8 settembre 2016). Un altro ‘fatto’, che da una parte denuncia la divergenza e nello stesso tempo esprime una positiva efficacia della Unione, si è verificato sul fronte del fisco. L’Unione (la Commissione europea) ha – dopo una lunga ed accurata analisi – deciso il recupero di 13 miliardi di euro di imposte non versate dalla Apple allo Stato membro Irlanda. Un attivismo benemerito contro quella pratica – scandalosa e anche autolesionista per una Unione, dotata di un Mercato unico e, in parte, addirittura di una Moneta unica – detta “ tax ruling”. A fronte della iniziativa “comunitaria”, proprio l’Irlanda – paese membro danneggiato(?)- ha scelto di impugnare la ‘Decisione’ della Commissione. E’ stato osservato che la cifra corrisponde alla spesa annuale che l’ Irlanda affronta per il suo sistema sanitario nazionale! Uno scambio “faustiano” – è stato detto – tra una società/economia nazionale e una multinazionale, in cambio di investimenti, occupazione, benessere nazionale a breve. Che fare? La vera risposta comunitaria dovrà realizzarsi sul fronte della comunitarizzazione di investimenti e di politiche sociali europee, per sottrarre gli stati e i popoli membri da questi tipi di “ricatto”. Insomma e in una parola: quando l’economia (e le imprese) diventa sempre di più “sovra-nazionale” la politica economica (fiscale, sociale, monetaria) deve diventare “sovra-nazionale”; diversamente anche il “Mercato Unico” diventa “fuori luogo” e, alla lunga, si inaridisce. Si vedrà come evolverà il contenzioso interno alla Unione tra Commissione e Irlanda, emerge infatti, la “lacuna grave dell’ordinamento comunitario, in quanto la Commissione non agisce in forza della scorrettezza degli accordi fiscali fra Stati e imprese (le politiche fiscali non sono materia comunitaria), ma a seguito della violazione del principio della leale concorrenza fra imprese che ne consegue” (cfr. Massimo Riva, “La foresta delle tasse”, in ‘la Repubblica’ 6 settembre 2016).
(le buone notizie, per il “cantiere Europa”)
Intenzioni e proposte per la “Convergenza” e per una “ nuova Agenda della Integrazione” sono comunque, in questi mesi, pervenute all’attenzione della opinione europea e anche degli Stati membri.
Innanzitutto sul versante della Sicurezza comune; e in risposta ( e come nuove opportunità) alla “Brexit.
Ha iniziato l’Italia (i ministri degli esteri e della difesa), su “Le Monde” e su “la Repubblica – l’11 agosto 2016) con la proposta di una “Schengen della difesa”: la terminologia evoca un percorso a tappe verso la struttura europea di lotta al terrorismo e la comunitarizzazione di parti (via via crescenti) della Difesa (“non si tratterebbe di creare una ‘armata europea’ che raggruppa la totalità delle forze nazionali degli stati partecipanti, ma di costituire una ‘forza europea multinazionale’ con funzioni e un mandato stabiliti insieme dotata di una struttura di comando e di meccanismi decisionali e budgettari comuni”).
Ha fatto seguito un Documento dettagliato del Governo italiano, inviato a Bruxelles dopo l’evento di Ventotene; tema-obiettivo: “solo una dimensione comunitaria può garantire le risorse umane, scientifiche, organizzative ed economiche per gestire la portata delle sfide sul fronte della sicurezza”.
Ha fatto seguito, ancora – in una sede rappresentativa, il vertice informale dei ministri degli esteri della UE, 2-3 settembre a Bratislava e successivamente al “Consiglio informale dei ministri della Difesa” – da parte dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Federica Mogherini, la presentazione di una vera e propria “Strategia di cooperazione rafforzata” (basi giuridiche gli articoli 42, 44, 46 del TUE) e di una cooperazione strutturata permanente, con l’obiettivo di dare all’Unione una ‘autonomia strategica’ per far fronte alle sfide della sicurezza. Il tema dovrebbe essere anche sul tavolo del vertice dei capi di Stato del 16 settembre. Avanguardia sarebbero: Roma, Berlino, Parigi; ma è altrettanto interessata la Polonia.
Non solo Sicurezza! Sempre l’Italia (questa volta, il ministro Padoan), ha presentato una proposta di “Fondo comune europeo per l’indennità di disoccupazione”. Obiettivo: aiutare i Paesi membri a superare le fasi di crisi economica e di aumento della disoccupazione. Anche qui, con sano approccio gradualista, il metodo delle cooperazione rafforzata. Si tratta di un documento molto elaborato e dettagliato, con cifre, diagrammi ed indici precisi. La portata strategica di questa proposta è persino più mobilitante delle precedenti: tocca la vita quotidiana delle persone nelle dinamiche antiche e moderne del Lavoro;quindi, della perdita e/o della concretizzazione della cittadinanza europea.
‘Diario europeo’ auspica che anche i risultati del lavoro, in via di conclusione, del “High level group on own resources” (guidato dal già premier Mario Monti, con la collaborazione di eminenti colleghi, come il commissario Pierre Moscovici e Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione), il Gruppo tecnico per la predisposizione di un Bilancio europeo dotato di ‘risorse proprie’: una antica questione strategica (un’altra di quelle alle quali si opponeva strenuamente la Gran Bretagna!), la cui soluzione potrà aprire un percorso virtuoso verso politiche “proprie” e comunitarie (non intergovernative!), come ad esempio: fondo per la disoccupazione, gestione delle migrazioni e della sicurezza. Le conclusioni del “High level group” sono previste in Ottobre; ora il lavoro si sta concentrando sulle nuove fonti di finanziamento che dovranno sostanziare le “risorse proprie dell’Unione”: in questo ambito torna di attualità – già riproposta dal commissario Pierre Moscovici, in questi giorni – una unica tassazione comunitaria per le imprese multinazionali; e trovare consistenza anche la proposta – lanciata da diverse parti – di un “ministro europeo del Tesoro.
Bratislava, però, mantiene all’ordine del giorno – quasi con una priorità di ordine morale, oltre che politico-strategico – il dramma delle migrazioni. L’auspicio è che la presidenza di turno semestrale del Paese (Slovacchia) ospitante faccia onore alla sua funzione. Anche qui, l’Italia (mentre continua a battersi per il giusto, necessario, equo ed equilibrato ricollocamento dei rifugiati che arrivano in qualsiasi territorio-paese membro dell’Unione europea) ha avanzato una proposta: quella della comunitarizzazione dei “Rimpatri”. Non si tratta di una sottrazione di sovranità agli Stati nazionali, ma al contrario di una forma di solidarietà europea, essendo l’Unione un soggetto politico strategico più forte nel dialogo/confronto con gli Stati terzi ( con i quali impostare e trattare una ordinata azione di rimpatrio, combinata con la realizzazione delle azioni previste nel “migration compact” – programmi di aiuti europei ai popoli e governi dei Paesi in difficoltà e in ritardo di sviluppo).
(la integrazione differenziata)
La problematica di una “integrazione” europea più flessibile e tesa a ricomprendere la costruzione della Unità europea nel quadro una “partnership continentale” (cfr. Diario europeo del 16 febbraio, 4 marzo, 24 giugno), anche a fronte della uscita del Regno Unito dalla Unione europea, ha avuto in questi giorni ancora un ulteriore approfondimento analitico.
La proposta è stata presentata simultaneamente il 28 agosto, a Londra, Bruxelles, Berlino e Parigi: è frutto di un dialogo tra cinque esperti europei, tra cui Guntram Wolff, direttore del think tank bruxellese Bruegel (gli altri sono Jean Pisani-Ferry, commissario generale della France Stratégie e docente alla Hertie School of Governance; Norbert Rottgen, presidente della commissione Esteri del Bundestag; André Sapir, docente all’Université Libre de Bruxelles e ricercatore a Bruegel; Paul Tucker, membro del Systemic Risk Council e ricercatore ad Harvard).
Si tratterebbe di un duplice e convergente movimento politico-strategico: il primo, da parte degli Stati della Unione europea attualmente dotati della moneta unica per procedere verso una vera e propria “Unione politica”; il secondo, da parte dei Paesi attualmente membri della Unione che non ritengono di potersi riconoscere nel mandato scritto nel Preambolo dei Trattati (“Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta”) e di altri Stati esterni (tra questi, in primis quelli già in partner della UE, partecipi dello “Spazio economico europeo-See” e altri, quali: Gran Bretagna, Turchia, Svizzera, Ucraina).
La filosofia di fondo di questa analisi è quella di: “Trasformare la Brexit da «problema» a «opportunità di rilancio» per l’Europa. Non tanto per l’Unione Europea, ma per l’intero Continente (…). La Partnership Continentale consisterà dunque in una integrazione economica per quanto riguarda merci, servizi, capitali e – in maniera ridotta e limitata – mobilità lavorativa. Per gli Stati collocati fuori dalla Unione politica è prevista la partecipazione in un nuovo sistema di processo decisionale intergovernativo. Oltre alla questione del mercato unico (e dei lavoratori) ci sono altre aree per le quali definire le forme dell’integrazione, ad esempio le politiche economiche esterne, in particolare il commercio e la regolamentazione finanziaria” (Marco Bresolin, La Stampa 29 agosto 2016).
Su questo studio, è intervenuto il presidente Prodi (con un articolo su “Corriere della sera” del 11 settembre, in partnership con Riccardo Franco Levi), esprimendo un plauso a questa iniziativa (già nel 2002, R. Prodi intervenendo alla sesta conferenza mondiale Ecsa – “L’Europa è più grande: una politica di vicinato come chiave di stabilità” – aveva auspicato un “anello di paesi amici”), ma anche sottolineando che : “Difficile condividere la sostanziale asimmetria a favore del regno Unito”; “altrettanto insoddisfacente è l’impianto inter-governativo”; “qualche perplessità desta la complessità del disegno della Partnership continentale (…) per raccogliere un rinnovato consenso attorno al progetto dell’ Europa unita”. Ma aggiunge: “Resta il nocciolo – questo sì pienamente condivisibile – della proposta: il progetto di un’Europa unita e forte, con attorno a sé una cerchia di Paesi, un ‘anello di amici’ per l’appunto, con i quali condividere una relazione speciale”.
Si tratta, ovviamente, di “studi” e di “analisi”. Non sono, certamente progetti “politici”, ma sono certamente stimoli alla Politica e alle Istituzioni rappresentative di questa Unione e di questi Paesi (Stati e Popoli) membri, soggetti di una Storia che non può e non deve naufragare per ignavia o per cecità.
Perciò: sempre e costantemente ripartire, con il coraggio e l’intelligenza di cogliere l’urgenza del momento.
Con fastidio, alcuni Paesi (non citiamo la espressione inadeguata e ineducata del ministro Wolfgang Schauble, per il rispetto che non solo chi scrive, ma tutti gli europei devono ai tutti popoli di questa Unione!) hanno accolto la riunione – ad Atene, il nove settembre – dei capi di Stati e di Governo di Grecia, Francia, Italia, Portogallo, Malta, Cipro e un rappresentante del governo dimissionario della Spagna , sul futuro di questa Unione e sulle sfide e le attese dei loro popoli. Anche questa riunione si svolta in previsione del vertice di Bratislava, anche questi Paesi auspicano una ripartenza: un percorso comune, una meta condivisa. Hanno le stesse aspirazioni e “vogliono” coltivare la stessa speranza e la stessa fiducia, con le quali gli altri Paesi membri si incontrano, discutono, collaborano; e, ad esempio, la cancelliera Angela Merkel ha (utilmente) voluto incontrare bilateralmente ben 13 capi di governo dei Paesi membri del nord Europa. Diversi e uniti, come i loro Popoli. Le polemiche sono, quindi, del tutto fuori luogo e anche frutto di miopia politica e strategica.
L’Unione europea deve fornire la prova della sua necessità! (copyright di Pascal Lamy). Il peso specifico dell’economia europea, rispetto alla economia Mondo è passato dal 34,4% del 2004, al 23,8 del 2014.
Ai leader dei Paesi membri di questa Unione Europea, affidiamo una memoria e un monito, come stimolo ad un rinnovato impegno per reagire e ripartire: “Nel 1954, dopo il voto contro la Comunità europea di Difesa, nel parlamento francese, i leader e i partiti europeisti furono investiti da una ondata di scetticismo e pessimismo. Reagirono con una conferenza che si tenne a Messina nel giugno 1955 e gettò le basi per la creazione del Mercato Comune Europeo, siglato a Roma, in Campidoglio, nel marzo 1957” (cfr. Sergio Romano, “I tre rimedi urgenti contro la palude”, in ‘Corriere della sera’ 23 agosto 2016).