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di Maria C. Fogliaro
È il 1985, e a Dublino le giovani generazioni guardano a Londra come a un sogno di libertà, una promessa di felicità al di là del mare. La crisi economica impera, erodendo la ricchezza delle famiglie e facendo dell’Irlanda una terra senza speranza: per chi resta è facile immaginare un futuro di depressione e alcolismo. Anche per il giovane Conor (Ferdia Walsh-Peelo) la vita si fa più dura: sopravvenute difficoltà economiche familiari lo costringono a lasciare il prestigioso collegio dei gesuiti dove aveva fino ad allora studiato per trasferirsi alla Synge Street Christian Brothers’ School, un istituto cattolico per le classi popolari, retto col pugno di ferro da padre Baxter (Don Wycherley).
Nonostante sia guardato con sospetto dai nuovi compagni per le evidenti differenze culturali e sociali, e sia costretto a subire le angherie di Barry (Ian Kenny) − un teppista con una famiglia sgangherata alle spalle − e a seguire la rigida disciplina dell’istituto, Conor per conquistare Raphina (Lucy Boynton), una ragazza conosciuta davanti alla scuola, si improvvisa cantante e decide da un momento all’altro di mettere in piedi una band. Con l’aiuto dell’amico (e futuro manager) Darren (Ben Carolan), imbarca nel progetto il chitarrista Eamon (Mark McKenna) e altri tre studenti della Synge Street, mentre Raphina viene assoldata come volto-simbolo dei videoclip che il gruppo realizza da sé con mezzi di fortuna.
Dopo Once (2006) e Begin Again (2013), il regista dublinese John Carney in Sing Street (Irlanda, 2016, 106’) seguendo le avventure di un gruppo di adolescenti torna a raccontare il proprio amore per la musica. E lo fa canalizzando nel film le sonorità vibranti degli anni Ottanta sia attraverso la riproposizione dei successi di gruppi fenomenali quali The Cure, Duran Duran, A-ha, The Clash, Hall & Oates, Motorhead, e The Jam, sia componendo, con il supporto indispensabile del musicista scozzese Gary Clark, pezzi originali − come Brown Shoes, The Riddle of the Model e A Beautiful Sea − capaci di immergere lo spettatore nelle atmosfere musicalmente sofisticate, eclettiche, e a tratti malinconiche, di quel periodo.
Protagonista del film, insieme alla musica, è la difficoltà per un adolescente di crescere in un ambiente sociale impoverito dalla crisi economica e dominato da una cultura patriarcale rozza e machista, efficacemente simboleggiata dal motto della Synge Street − Viriliter age (agisci da uomo) − ed esplicitamente incarnata dalle figure prepotenti e fra loro speculari di padre Baxter e di Barry, i quali scatenano fin dal primo momento tutta la loro aggressività su Conor da essi percepito come un debole, portatore di qualità non virili completamente da sradicare. Una mentalità, questa, che emerge visibilmente anche in altre situazioni, come nella vicenda di Raphina − impegnata in una relazione squilibrata con un ragazzo molto più grande di lei e la cui infanzia è stata segnata dalle violenze di un padre alcolizzato −, o nel rapporto ormai arrivato al termine fra i genitori di Conor, prossimi a una separazione (ricordiamo che il divorzio sarà legge in Irlanda soltanto nel 1997) vissuta da Robert (Aidan Gillen), il padre del giovane, come una sconfitta personale e con un senso di inadeguatezza crescente. Alla fine soltanto Conor saprà sovvertire i canoni della virilità allora dominanti aprendo le porte a una forma differente, più matura, di «maschile», che permette anche a un uomo di potersi sentire «felice-triste» − che significa, per Conor, saper accettare la vita così com’è, e andare sempre avanti −. Il giovane cantante ci riuscirà grazie all’arte e al sostegno di Brendan (Jack Reynor), suo fratello maggiore, i cui consigli sono stati indispensabili per la sua formazione musicale e umana.
Sing Street possiede alcuni tratti del romanzo di formazione. In esso tutto è descritto con pudore e leggerezza, con allegria e senso della misura, ma senza moralismi, mentre il ritmo avvincente della musica accompagna il protagonista nel percorso di conoscenza di sé e di ricerca della propria strada nel mondo. Un film che, sostenuto dalla bella fotografia di Yaron Orbach, è anche un omaggio alla malinconica bellezza delle cittadine costiere di Dalkey e Howth, ma sopratutto a Dublino, città vibrante di poesia e musica, nella quale il ritmo corre per le strade e nei pub affollatissimi − dove melodie antiche si mescolano ai suoni potenti e graffianti del rock o a quelli più dolci, leggeri, e spesso melanconici, del pop e del folk −, e i cui abitanti sembrano tutti possedere quello che Patrick Kavanagh chiamò «il segno segreto noto agli artisti che hanno conosciuto i veri dei del suono e della pietra».