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di Maria C. Fogliaro
Nonostante le narrazioni rassicuranti i cittadini italiani, per l’intersecarsi di una serie complessa di ragioni, non hanno più fiducia nel futuro: è, questo, in estrema sintesi il quadro che emerge dal cinquantesimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2016, presentato a Roma il 2 dicembre da Giuseppe De Rita e da Massimo Valerii (rispettivamente presidente e direttore generale del Censis – Centro Studi Investimenti Sociali), e introdotto da Delio Napoleone (presidente del CNEL).
Se si guardasse soltanto all’andamento dei principali indicatori economici che, rispetto al 2015, non hanno registrato grossi cambiamenti, «la tentazione − ha detto Valerii − sarebbe quella di ripetere l’interpretazione che avevamo dato lo scorso anno, cioè di un’Italia nel limbo dello “zero virgola…”». E invece «quest’anno sono avvenuti degli accadimenti che ci porterebbero a dire, quasi con un certo smarrimento: non era mai successo prima».
Che cosa è accaduto di rilevante nella società italiana nel 2016? Innanzitutto, sul piano demografico non era mai successo prima che nascessero così pochi bambini e che il numero complessivo della popolazione italiana diminuisse. Dal punto di vista economico, non era mai successo che a tassi d’interesse allo zero o sotto zero corrispondesse un ammontare degli investimenti così basso, ai minimi dal dopoguerra. Si assiste alla riesplosione dell’economia sommersa, diversa da quella degli anni Sessanta poichè mira soltanto alla produzione di reddito. Il Paese accumula liquidità e non investe: dal 2007 gli italiani hanno raccolto un patrimonio (che tengono fermo e liquido) pari a 114,3 miliardi di euro, quanto il Pil di un Paese intero come l’Ungheria. C’è stata la Brexit che ha avviato «una retromarcia clamorosa» nel processo di integrazione europea. A tutto questo si è aggiunta la bolla dell’occupazione a bassa produttività, ovvero una crescita dell’occupazione − caratterizzata dall’aumento dell’area delle professioni non qualificate e dei «lavoretti» − che non ha stimolato l’economia. In particolare, la trasformazione del lavoro sta causando la continua erosione dell’identità e del potere del ceto medio, con il contenimento delle professioni intellettuali, lo svuotamento delle figure intermedie esecutive nell’ambito impiegatizio, la diminuzione del numero di artigiani, agricoltori e operai: tutto a vantaggio dei lavori non qualificati. Ma il dato più impressionante è stato il vero e proprio «ko economico dei giovani», per la prima volta nella storia sociale del nostro Paese più poveri dei padri e dei nonni. Questa situazione nel suo complesso è causa di insicurezza e di aspettative sul futuro negative o piatte: secondo le indagini condotte, il 61,4 per cento degli italiani è convinto che il proprio reddito non aumenterà nei prossimi anni; il 57 per cento ritiene che i figli o i nipoti non vivranno meglio di loro (percentuale che aumenta al 60 per cento nel caso dei benestanti); il 63,7 per cento si aspetta una riduzione del proprio tenore di vita nei prossimi anni.
Insomma, il ritratto è quello di «un’Italia rentier, senza proiezione sul futuro», che si limita a sfruttare il capitale di risorse di cui dispone. Certamente c’è anche un contraltare a questo quadro preoccupante. Nonostante la riduzione del commercio mondiale e la contrazione notevole della domanda dalle economie emergenti, si è registrato il successo dell’export trainato dalle nostre filiere produttive più globalizzate − meccanica di precisione, alta moda e design, enogastronomia −. Ottimi risultati sono stati raggiunti anche nel settore turistico − sempre più polarizzato fra l’offerta di lusso e quella low cost −, che tra il 2008 e il 2015 ha registrato un aumento del 31 per cento.
Infine, è emersa un’Italia sempre più coinvolta nei flussi digitali, in aumento perché «consentono di incrementare il proprio potere individuale di disintermediazione» fondamentale nell’«era biomediatica», e nei flussi migratori, che continuano a crescere e che − in mancanza di una strategia europea per una gestione condivisa − possono generare problemi in «un Paese che ha fatto dell’integrazione minuta, molecolare, quotidiana, il suo punto di forza».
L’Italia − ha detto De Rita, che si appresta a lasciare il Censis dopo averlo fondato nel 1964 − è caratterizzata da «una continuità che ha dentro una vitalità incredibile», e ha «un corpo sociale che regge» e «che rumina» nonostante le difficoltà. Un Paese che «tende a cicatrizzare le ferite» e che, tuttavia, si trova davanti a tre lacerazioni che, almeno nel breve periodo, difficilmente potranno essere ricomposte: la Brexit, che «riduce l’idea di una appartenenza europea, e occidentale»; il terremoto, che sta insinuando la convinzione che l’Appennino − fondamentale nella costruzione dell’identità italiana − possa essere lasciato a se stesso; e soprattutto lo scollamento fra élites e popolo, al quale la politica risponde con «una semplificazione della dialettica socio-politica e dei processi istituzionali, con un ritorno alla verticalizzazione del comando e alla centralizzazione delle decisioni». Per De Rita, al contrario, a questa deriva è necessario opporre un rinvigorimento delle istituzioni, che hanno fatto l’Italia e che hanno consentito il raccordo fra il popolo e il potere politico. Il rischio, altrimenti, è la contrapposizione perenne fra corpo sociale ed élites con l’accusa reciproca di populismo. «Rifare lo Stato» è un’ipotesi che, per quanto inattuale, De Rita proporrebbe volentieri.
Il rapporto del Censis evidenzia l’esistenza nel nostro Paese di questioni di fondo che − anche alla luce dei risultati del referendum del 4 dicembre − devono essere affrontate senza ulteriori rinvii. Su tutte la questione di un’economia che tiene ma non sulla base di una visione organica e di uno sviluppo condiviso, e che interessa solo alcuni settori specifici e alcune regioni del nostro Paese, mentre i legami sociali − nonostante la tenuta della famiglia − e le istituzioni intermedie si stanno sfarinando. Questioni che vengono da lontano, con le quali la politica è obbligata a misurarsi al di là del conflitto pur aspro che ha diviso il Paese.