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di Maria C. Fogliaro
Si varca una soglia verso un mondo «altro» entrando a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, che ospita fino al 29 gennaio 2017 la mostra Orlando Furioso 500 anni. Che cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi. Un incontro ravvicinato con cavalieri, dame e donne guerriere, battaglie, duelli epici, animali fantastici, armi magiche, incantesimi, e tutto quanto popolava il mondo fatto di meraviglie e di stupore delle corti rinascimentali. Un percorso espositivo che a cinquecento anni dalla pubblicazione della prima edizione di Orlando Furioso − avvenuta a Ferrara il 22 aprile 1516 − è riuscito a far rivivere il sogno dell’antico mondo cavalleresco cui l’immaginazione di letterati e poeti diede vita.
Da un esemplare unico dell’Innamoramento de Orlando − la stampa più antica (1486) giunta fino a noi del capolavoro di Boiardo − e da due simboli potenti e arcani, il labirinto e il bivio, comincia l’affascinante itinerario, organizzato per sezioni tematiche, alla scoperta dell’immaginario ariostesco. Un universo alimentato da oggetti preziosi o insoliti: come la Lira da braccio (1511) antropomorfa, e l’Olifante detto “Corno di Orlando” (XI secolo circa), per tradizione identificato con quello suonato dal paladino di Carlo Magno a Roncisvalle pur essendo stato in realtà fabbricato circa tre secoli dopo la leggendaria battaglia (778 d.C.). Dai grandi capolavori dei pittori italiani della fine del Quattrocento e del primo Cinquecento, fra i quali Botticelli, Mantegna, Giorgione, Raffaello, Piero di Cosimo, Dosso Dossi, e Tiziano. E, poi, ancora da disegni, come quello dalla lettura sfuggente di Leonardo; da romanzi cavallereschi, come l’esemplare sontuoso di Lancelot du Lac (Parigi, 1494); da manoscritti e lettere, come quella autografa di Machiavelli a Lodovico Alamanni (17 dicembre 1517), che contiene la più antica testimonianza a noi pervenuta di apprezzamento del poema ariostesco.
L’accostamento di arazzi, manoscritti miniati, armi, dipinti dei quali si nutre la poesia del Furioso, consente di ricostruire − come era nelle intenzioni dei curatori della mostra, Guido Beltramini e Adolfo Tura − la forse irripetibile combinazione di immagini che accese il cuore e l’intelletto del poeta mentre scriveva il suo grande poema. Ma soprattutto serve a suscitare in noi, oggi, uno stupore analogo a quello che Ariosto riuscì a creare con Orlando Furioso. Un’opera che si presenta come una macchina del meraviglioso, capace di rendere il prodigioso, il visionario, il bizzarro tangibili e reali quanto ciò che è fenomenico, e a cui però non sfugge una visione pessimista della condizione umana, rappresentata dalla follia che colpisce Orlando e che potenzialmente si ritrova in ogni comportamento umano. Lontano dalla dimensione terrestre, sulla Luna − descritta da Ariosto come una sfera metallica, simile al Globo dell’obelisco vaticano (prima metà del I secolo d.C.) in esposizione – si ritrovano i senni perduti.
La mostra in corso nella città estense consolida la visione di Orlando Furioso come un’opera aperta sull’eternità ma capace al contempo di inglobare la realtà del suo tempo, come testimonia tra le molte cose la presenza della carta del Cantino (1501−1502), uno dei più celebrati monumenti cartografici del Rinascimento e simbolo della rivoluzione geografica seguita alla scoperta del Nuovo mondo. E, soprattutto, consente di tornare a riflettere sulla condizione storica di un’Italia che ai tempi di Ariosto era divisa e oggetto delle voraci mire espansionistiche delle potenze europee, e che pure l’arte, la poesia, la letteratura, la lingua seppero per prime unire e fare grande. Una riflessione sul nostro passato che poggia su un punto di vista che l’accademia non ha mai troppo frequentato: il mondo del magico, del fantastico e del meraviglioso. E la meraviglia, dicevano i Greci, è l’inizio del sapere.