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Sulle strade millenarie dell’Eurasia: “La via della seta” di Franco Cardini e Alessandro Vanoli

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 di AMINA CRISMA

(in collaborazione con www.inchiestaonline.it )

Il libro, ripercorrendo i molteplici percorsi che hanno storicamente collegato Oriente e Occidente,  offre un contributo importante per ripensare in una prospettiva non eurocentrica la complessità delle radici antiche del nostro mondo globalizzato.

Come ci ricorda un recente racconto di PierLuigi Luisi, La regina di Samarcanda (Aracne 2017), evocare la via della seta – designazione metonimica che indica l’insieme delle strade che dalla remota antichità hanno collegato l’Asia all’Europa e al Mediterraneo – equivale a ripercorrere un fertile spazio dell’immaginario la cui inesauribile suggestione si irradia e si rifrange in innumerevoli affabulazioni, dal Viaggio in Occidente (Xiyou ji) di Wu Cheng’en a Le città invisibili di Italo Calvino. Ma “quel mondo che ci riempie di meraviglia e di stupore”, come lo definiva Goethe affacciandovisi attraverso Il Milione di Marco Polo, se per un verso ha le fantasmagoriche sembianze che vi hanno conferito tante seducenti narrazioni, dall’altro si configura da sempre come un concretissimo ambito di traffici e di scambi in cui è in primo piano la corposa materialità delle merci: dall’ambra alla seta, dal cobalto alle spezie, dalle ceramiche alla carta. Ed è tale dimensione di corposa materialità a tornare oggi alla ribalta, negli scenari del gigantesco progetto strategico infrastrutturale yi dai yi lu (“One Belt, One Road, “una cintura una strada”) che il governo cinese sta lanciando a partire da quegli antichi cammini: un progetto che ambisce a trasformare radicalmente i paesaggi del nostro mondo globalizzato, e di cui si può cogliere qualche cospicua avvisaglia nelle cronache di questi ultimi mesi. Sono già attivi, ad esempio, collegamenti ferroviari diretti per le merci fra Pechino, Madrid e Berlino, fra Wuhan e Lione, ed è della fine del novembre scorso la notizia della partenza da Mortara, in provincia di Pavia, nel cuore della pianura padana, del primo treno merci diretto Italia-Cina, che in diciotto giorni di viaggio è giunto attraverso Russia, Bielorussia e Kazakistan a Chengdu nel Sichuan, inaugurando una linea di cui si prevede una cadenza settimanale.

Ha contribuito a proporre questa tematica una grande mostra, “Dall’antica alla nuova via della seta” che si è tenuta l’anno scorso a Roma e a Torino (il curatore Maurizio Scarpari ne ha parlato su Inchiestaonline del 27 dicembre 2016), e ora è un volume di Franco Cardini e Alessandro Vanoli, La via della seta, una storia millenaria tra Oriente e Occidente (Il Mulino 2017) a offrirne un’articolata rappresentazione, ripercorrendone le vicende dall’antichità alle soglie dell’età contemporanea. Il libro è stato presentato il 17 gennaio all’Archiginnasio di Bologna, per iniziativa della Società di Lettura, da Giovanni Brizzi, storico della Roma antica e delle complesse dinamiche della sua espansione, insieme agli autori(il video dell’incontro è su Youtube http://bit.ly/2Dp1JLb).

L’interesse per i rapporti fra l’Europa e il Mediterraneo e l’Oriente è da tempo presente nella sterminata bibliografia di Franco Cardini come nei saggi di Alessandro Vanoli, studioso della presenza araba e islamica nel Medioevo, che ha fra l’altro dedicato alle esplorazioni e alle scoperte geografiche alcuni dei suoi titoli più recenti (Quando guidavano le stelle (2015), L’ignoto davanti a noi (2017). Tale comune interesse li ha spinti a narrare in questo volume la storia multiforme della rete di comunicazioni terrestri e marittime che congiunge Europa e Asia, per cui hanno transitato attraverso i secoli merci, uomini, tecniche, conoscenze, idee, che è stata ambito di cruenti conflitti e di avvicendamenti di imperi, e insieme fecondo spazio di scambi e di interazioni culturali: dalla grande espansione del buddhismo alla diffusione dell’islam alla propagazione del cristianesimo siriaco, che nella celebre stele di Xi’an del VII secolo ci ha lasciato una delle sue più significative testimonianze.

Si tratta di “un percorso su cui poggiano le nostre radici”, e riattraversarlo non significa soltanto ricostruire il passato, ma comprendere la sostanza del nostro presente, al di fuori degli idola tribus e dei vieti schemi di un’arroganza eurocentrica tuttora così diffusa:

“Nel grande mare della storia, il periodo di quella che definiamo egemonia occidentale riguarda più o meno cinquecento anni. Un tempo piuttosto breve, se misurato col metro delle grandi civiltà; un tempo sufficiente, però, ad aver consentito una sorta di illusione ottica, secondo la quale l’Occidente sarebbe sempre stato il motore delle vicende umane. In realtà, per un periodo lunghissimo la storia fu invece dell’Asia. Prima dell’età moderna, era la Cina a dominare l’economia mondiale; ed era l’Asia il cuore della civiltà. (…) Oggi, di fronte alle trasformazioni globali in atto, ripercorrere quella lunga storia è diventato sempre più necessario (…) Che lo si voglia o meno, la via della seta ha a che fare con le nostre radici e col nostro destino.”

Da questa prospettiva di lunga durata si dipartono le molteplici sollecitazioni del libro, al cui centro sta la densa nozione di Eurasia, che ci ricorda che l’umanità è da sempre una rete di connessioni, di branchements, non solo da quando esiste internet. L’esperienza umana è da sempre intrinsecamente e costitutivamente relazionale (non pare in questo senso casuale, come ama spesso sottolineare François Jullien, che in cinese “cosa” si dica dongxi, “est-ovest”), ed è da sempre in cammino: il camminare intimamente le pertiene, e si percorrevano enormi distanze anche quando non c’era l’alta velocità, quando si andava a piedi, o su carri, o sul dorso di animali, “quando guidavano le stelle”, per riprendere il pregnante titolo di Alessandro Vanoli che si è prima ricordato. “A piccoli passi si percorrono diecimila li”, recita un antico detto confuciano. Immense lontananze fra Occidente e Oriente erano varcate da innumerevoli testi, come i sutra che dall’India arrivavano in Cina, e transitavano per grandi cantieri di traduzioni, e da innumerevoli motivi figurativi, come si può constatare osservando il panneggio inequivocabilmente greco, veicolato per il tramite dell’arte del Gandhara, di numerose effigi cinesi del Buddha (e per il tragitto opposto, che ha portato nella nostra arte gotica tante immagini di provenienza orientale, non si può fare a meno di evocare quello splendido libro che è Il Medioevo fantastico di Jurgis Baltrusaitis).

La via della seta ci mostra anche paesaggi di distruzione, come quello di Bamiyan, dove i grandi Buddha scolpiti nella roccia sono stati ridotti in polvere dai talebani nel 2001, secondo un copione di iconoclastia fondamentalista che, com’è ben noto, si è poi ripetuto più volte in spazi a noi più vicini. Ma fra i molti luoghi che il libro descrive, c’è Chang’an (“Pace eterna”, che ha poi preso il nome di Xi’an, “Pace occidentale”), la cosmopolita capitale della dinastia Tang, che nel VII secolo ospitava un caleidoscopio di popoli, di lingue, di religioni: la sua grande moschea con il giardino di oleandri accanto alle pagode dove si custodiscono i sacri testi buddhisti ci parla non solo di un imponente passato, ma di un vitale presente, e di un futuro possibile.

Il volume si conclude sulle prospettive attuali della Nuova Via della Seta e sulle trasformazioni degli scenari globali da essa implicate. La poderosa energia che la Cina sta proiettando su quegli antichi percorsi era stata lucidamente preconizzata fin dagli anni Trenta da un grande esploratore di frontiere come Owen Lattimore, ed era chiaramente percepibile già dall’inizio degli anni Novanta, quando ho viaggiato su quelle strade scoprendovi la ricca polifonia di un islam cinese tuttora in larga misura misconosciuto, ho soggiornato con pastori nomadi kazaki nella zona del lago Tianchi, e nel Xinjiang alle antiche oasi degli uiguri già si affiancava un pullulare di prospezioni petrolifere, e ai viaggiatori già andavano sostituendosi folle di turisti. Come si declinerà il rapporto fra la pluralità delle cosiddette minoranze (shaoshu minzu) e dei loro stili di vita arcaici, e l’impatto tendenzialmente uniformante di una modernità cinese che, se da un lato rivendica la propria specifica identità culturale e la propria storica missione “armonizzatrice” del tianxia, “quanto sta sotto il cielo”, dall’altro ha da tempo integralmente compiuto il proprio “passaggio a Occidente” sotto il profilo del modo di produzione?

Amina Crisma

(in collaborazione con www.inchiestaonline.it )

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