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Ha qualcosa da dirci oggi il testo biblico? Un libro che invita a interrogarlo in una prospettiva inconsueta, cercandovi domande piuttosto che rassicuranti risposte, a partire dalla nozione cruciale della fragilità, sullo sfondo di questo nostro problematico presente.
A ben vedere, non di rado è uno statuto a dir poco ambivalente a configurare da noi la notorietà della Bibbia. All’omaggio scontato che si rende abitualmente alla sua riconosciuta importanza come Grande Codice spesso non corrisponde affatto un’effettiva pratica di lettura. Non c’è aspetto della nostra cultura, marxismo compreso, che non sia stato influenzato dai libri e dai linguaggi che ne compongono la multiforme e non univoca pluralità: il Cantico dei Cantici rappresenta una inestinguibile e sfolgorante radice di visioni, d’arte, di poesia, dal dolce stil novo a Marc Chagall; al disincantato linguaggio del Qohelet attinge ogni tematizzazione radicale della condizione dell’esistenza umana sotto il sole, come la laica riflessione di Giacomo Leopardi; la narrazione dell’Esodo, come ci rammenta fra l’altro un recente libro di Jan Assmann (Verso l’unico dio. Da Ekhnaton a Mosè, Il Mulino 2018) costituisce la matrice di ogni laico discorso di emancipazione (“go down Moses” recita lo spiritual reso celebre da Louis Armstrong, e nato fra gli schiavi della Virginia al tempo della Guerra di Secessione); al linguaggio della profezia si sono ispirati, oltre che le vibranti invettive dantesche, i movimenti di trasformazione della società che hanno incessantemente animato la storia dell’Occidente, come ci ricorda nei suoi ultimi scritti Paolo Prodi. E tuttavia, l’ignoranza della Bibbia caratterizza nel nostro Paese un pubblico assai vasto, che include spesso, in crescente misura e non per colpa loro, quelli che dovrebbero essere lettori per eccellenza, ossia gli studenti, come mi è capitato di constatare durante tutta la mia esperienza di insegnamento, sia al liceo che all’università.
Varrebbe la pena di interrogarsi sulle cause di questo curioso atteggiamento, che appare così diffuso in Italia, e forse anzi va addirittura aumentando, verso il Libro per antonomasia: Libro universalmente noto di nome e pressoché altrettanto generalmente ignorato di fatto. Fra l’altro, penso che a originarlo non sia stato del tutto estraneo il tipo di comportamento descritto da Luigi Meneghello in un episodio del libro autobiografico Libera nos a Malo (1963): nel Veneto cattolico della sua infanzia, negli anni Venti e Trenta, se arrivava qualche protestante a portare nelle case la Bibbia se ne accettava, per buona creanza verso il visitatore, la consegna, ma poi, nella convinzione che una lettura diretta, non mediata dall’autorità ecclesiastica, costituisse una sacrilega profanazione, si procedeva immediatamente a bruciarla nel camino.
A un rinnovato confronto con il testo biblico ci invita ora Teologia per tempi incerti (Laterza 2018) di Brunetto Salvarani, docente alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e all’Istituto di Scienze Religiose di Modena, conduttore radiofonico a Uomini e profeti di RadioTre, giornalista e scrittore, autore fra l’altro de La Bibbia di De André (Claudiana 2015). I tempi incerti a cui il titolo allude sono questo nostro presente “ansioso e ansiogeno, incline a populismi più o meno manierati, sottoposto a un inedito disordine mondiale continuamente da decifrare, depresso, depressivo, denso di ricorrenti paure individuali ma anche collettive, di rancori risorgenti da stagioni ancestrali, di passioni tristi e tensioni autodistruttive”.
Su questo sfondo confuso e turbato si formula un invito ad aprire la Bibbia, rivolto soprattutto a quelli convinti che sia “roba da preti” che non li riguarderebbe in alcun modo, non tanto per cercarvi consolazioni, rassicurazioni e certezze, quanto piuttosto per riaprire un’interrogazione profonda su se stessi e sul mondo a cui l’antica sapienza scritturale è in grado di offrire fresche e vitali risorse. E’ dunque una prospettiva di lettura sapienziale che qui viene proposta, e che assume come centrale la nozione di fragilità: la fragilità come cifra cruciale della condizione umana, di cui si evocano gli aspetti diversi attraverso le figure di Giona, di Noè, di Giacobbe, di Giobbe, di Qohelet/Salomone. E ancora, è una fragilità di Dio che si espone all’alterità dell’uomo a esser chiamata in causa. E inoltre, fragilità è la parola chiave su cui si impernia la rappresentazione dell’umanità di Gesù, e la chance di un cristianesimo fragile è additata, infine, come fertile potenzialità opposta a un cristianesimo reificato, ridotto a impianto dottrinale, come via di testimonianza antitetica rispetto a una concezione di Chiesa intesa come istituzione detentrice di dogmi da insegnare al mondo.
Ricordandoci che “la forza si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9) – convinzione paradossale che, notiamo en passant, suona singolarmente affine a celebri enunciati del Laozi, il grande classico della Cina antica caro a Tolstoj e a Simone Weil – il libro di Salvarani ha il merito di additarci orizzonti notevolmente distanti e dissonanti rispetto alle chiassose e tronfie ostentazioni muscolari che occupano di questi tempi, non soltanto in Italia, la pubblica scena. “Abitare la fragilità” è il suo motto pregnante, che credo ben si attagli non solo a definire l’impegno di coloro che sono credenti, ma che a mio avviso andrebbe attentamente meditato, recepito e tradotto in pratica da una cultura laica risoluta a non farsi soverchiare e fagocitare dalle fragorose retoriche oggi imperanti, e capace di coltivare nonostante tutto l’umile, coraggiosa e tenace virtù della speranza: “Abitare la fragilità significa raccogliere la sfida insita in questa fase di permanente transizione eletta a orizzonte vitale; capire e amare questa condizione, ivi incluse le potenzialità e le risorse che porta con sé, accettando che sia finita un’epoca e che la nostra condizione sia irriconoscibile rispetto alle forme ereditate dal passato, anche recente. Senza alcuna certezza da vantare. E chissà che, alla fine, non si riveli un kairòs, un tempo di straordinarie e sorprendenti opportunità”.