Un libro che in ventun voci – da Assoluto a Zen, da Felicità a Umanismo, da Giustizia a Relazione – compendia le letture di una vita e un peculiare stile di riflessione, e che con la sua pacatezza discorsiva ci offre un salutare antidoto al dilagante fragore di tanta vacua retorica corrente.
Sovente Inchiesta (www.inchiestaonline.it ) ha additato all’attenzione dei lettori l’originale proposta di riflessione interculturale che sottende le opere di Giangiorgio Pasqualotto, da East & West (2003) a Estetica del vuoto (2006), da Figure di pensiero (2007) a Oltre la filosofia (2008), da Filosofia e globalizzazione (2011) a Taccuino giapponese (2018); non può dunque mancare di segnalar loro il suo lavoro più recente, Alfabeto filosofico, da poco uscito da Marsilio (2018), che di tale proposta rappresenta un esito particolarmente significativo.
Come chiarisce la premessa, la finalità di questo libro non è di offrire un dizionario, ossia un repertorio concluso e definitivo di concetti, quanto piuttosto “un elenco esemplare di alcune idee che si sono formate e consolidate nella storia del pensiero, ma che continuano a dimostrarsi talmente feconde da rimanere aperte a sempre nuove interpretazioni”. Questa formulazione, oltre che descrivere la caratteristica saliente del volume, ben si presta a compendiare il peculiare stile filosofico del suo autore, ispirato a una concezione eminentemente dialogica dell’attività intellettuale. L’esercizio del pensiero è da lui inteso “come pratica filosofica mediante la quale il soggetto si forma e si trasforma”, per riprendere la definizione da lui stesso offerta ne Il Tao della filosofia, seminal work del 1989 ristampato nel 2015 che ha costituito la prima attestazione del suo interesse per i pensieri d’Oriente: un interesse infaticabilmente svolto negli anni successivi non solo attraverso i suoi scritti e il suo insegnamento all’Università di Padova, ma anche tramite innumerevoli iniziative, convegni e incontri di cui è stato promotore e animatore, e di cui dà un’efficace rappresentazione il volume collettaneo in suo onore La filosofia e l’Altrove (Mimesis 2016) a cura di Emanuela Magno e Marcello Ghilardi, nel quale – cosa piuttosto rara in un panorama accademico generalmente piuttosto propenso alla settorialità – si vengono significativamente a incrociare protagonisti di ambiti diversi, dalla filosofia alla storia delle religioni, dall’indologia alla sinologia alla yamatologia.
Nell’Alfabeto filosofico, la dialogicità caratteristica dello stile di lavoro di Pasqualotto, che si rifà a un antico modo di intendere la filosofia come “esercizio comunitario di un pensare critico” e che trovava fra l’altro cospicua espressione nei suoi seminari padovani di cui da metà degli anni Novanta ho avuto il privilegio di essere partecipe interlocutrice, attraversa tutte le ventun voci che vi hanno spazio, da Assoluto a Zen, da Felicità a Umanismo, da Giustizia a Relazione, da Esistenza a Verità. In riferimento a ogni termine, si rimette in causa l’ingenua presunzione che fa ritenere un assunto autoevidente una definizione data, mostrando come essa sia passibile da più punti di vista di revoca in dubbio e di problematizzazione. Relatività e relazionalità sono la strumentazione critica che viene incessantemente giocata contro ogni sostanzialismo, secondo una propensione antiessenzialistica che trae alimento da un ampio e ricco ventaglio di voci differenti, antiche e moderne, da Nietzsche ai classici taoisti alle fonti buddhiste.
Ma proprio perché il libro dichiara aperte le proprie conclusioni, ogni lettore sarà indotto a sua volta a proseguire per conto suo l’interrogazione e l’investigazione. Così dunque, ad esempio, potrebbe accadergli, a proposito delle pagine dedicate a un’articolata disamina dell’idea di Libertà, di consentire con il rifiuto della mitologia che ne fa un astratto assoluto, e di rilevarne, d’accordo con l’autore, il condizionamento (che è, secondo la convinzione buddhista, intrinseca e ineludibile caratteristica d’ogni realtà oggettiva e soggettiva): e peraltro, egli potrebbe obiettare, la “liberazione dall’idea di libertà” come da una perniciosa illusione che viene qui proposta non è a sua volta passibile di esser ritenuta illusoria? In altri termini, non è forse una certa dose di illusione così intimamente consustanziale al nostro vivere, come riteneva Giacomo Leopardi, che immaginare una totale emancipazione da essa risulterebbe velleitario? E ancora, illusoria o meno che sia, si potrà chiedere se il motto famoso “libertà va cercando ch’è sì cara/ come sa chi per lei vita rifiuta”, sia totalmente destituito di significato, o se invece non abbia rappresentato e non rappresenti un fertile orizzonte di senso per tante passate e presenti battaglie di emancipazione, da Martin Luther King a Nelson Mandela a Malala Yousafzai, la ragazza pachistana Premio Nobel e testimonial della libertà di istruzione delle donne.
Comunque è precisamente la capacità di suscitare domande, e non di provocare un torpido e quieto appagamento nelle risposte, l’esatta misura della feconda dialogicità del libro, che metodicamente si dispiega su un duplice versante, ossia fra pensiero antico e moderno e fra Orienti e Occidenti. Nelle stesse pagine si incontrano così Platone e Confucio, Eraclito e il Laozi, Wittgenstein e il taoista Zhuangzi (IV secolo a.C.), audace decostruzionista e critico radicale dei limiti del linguaggio, Whitehead e Thich Nhat Hanh, Kant e l’”illuminismo” antimetafisico del Buddha, Spinoza, Merleau-Ponty e lo Huangdi Neijing.
Tutta questa impressionante vastità di riferimenti è declinata con una pacatezza discorsiva davvero inconsueta in questi nostri tempi così propensi alla magniloquenza retorica, ed è quanto mai distante da quella sorta di solenne ampollosità sentenziosa prediletta da un certo comparativismo molto in voga, che ama declamare intorno ai presunti immutabili Destini di un Oriente e di un Occidente reificati e ridotti a monolitici feticci; essa è semmai rivolta a mostrarci quanti volti molteplici e plurali ci rivelino gli Orienti e gli Occidenti, e quante risorse per i nostri pensieri odierni siano racchiuse nei pensieri d’ogni epoca e latitudine. Questo sottrarsi a ogni facile schematismo si connette con una certa idea di filosofia, che rifiuta risolutamente di ricondurla entro i confini di uno specialismo:
“La filosofia, a dispetto di ogni classificazione disciplinare, emerge all’interno di ogni attività umana alimentata da un pensare critico, immune da ogni presupposto, che non si pone come obiettivo quello di conquistare e possedere la verità, ma “soltanto” quello di ricercarla senza tregua”.
E’ di questo genere di atteggiamento e di questa pacata misura discorsiva che credo abbiamo più che mai bisogno oggi, a fronte del fragoroso riemergere degli idola tribus di un arrogante senso comune dichiaratamente, programmaticamente e ferocemente nemico non solo di ogni socratica ricerca, ma anche di ogni buon senso di manzoniana memoria. Ed è in particolare alla vexata quaestio dell’Identità che si riferiscono alcune limpide considerazioni:
“Le critiche al concetto di identità non vanno intese come tentativi di ridurre o addirittura di annientare ogni identità, ma all’opposto vanno colte come intenzioni di mostrare che ogni identità è di fatto più ricca, ramificata e stratificata di quanto il senso comune, per ignoranza o anche solo per pigrizia, ha sempre creduto e continua a credere (..). Ogni identità può essere paragonata a un punto inteso non come atomo isolato, ma come luogo di incrocio di infinite linee che lo costituiscono e insieme lo collegano a tutti gli altri infiniti punti. Queste immagini esemplari (..) possono servire a evitare prospettive marcate da rapporti di reciproca indifferenza e, addirittura, scenari dominati da involuzioni conflittuali”.
Fra i passi più pregnanti voglio infine ricordare quelli dedicati alla Giustizia: che ci rammentano come questa non rappresenti un immobile dato, bensì il frutto di una dinamica tensione armonizzatrice, come la concepiscono Eraclito e Laozi. Esse ci rammentano altresì che tale nozione filosofica di giustizia risultò essere troppo alta e troppo ardua per la giustizia “storica”, ossia per quella concretamente praticata dai poteri e dai governi effettivi, sicché si trovarono accomunati da un destino di spettatori inermi nei confronti della realtà effettuale, un destino che conobbero anche Platone e Confucio. “Eppure, nonostante tutti i fallimenti nella realizzazione delle sue proposte, la filosofia, sia in Oriente sia in Occidente, deve porsi sempre il problema della giustizia”, il che equivale a dire, mi sembra, che nonostante tutto essa non dovrà mai rinunciare alla sua intrinseca politicità, ossia alla sua coraggiosa capacità di progettare mondi possibili: inattuale, e proprio per questo forse oggi più che mai necessaria.