Maurizio Scarpari: Il “socialismo con caratteristiche cinesi” di Deng Xiaoping
Il 13 dicembre 1978, in occasione dei lavori preparatori del terzo plenum dell’XI Congresso del Pcc, Deng Xiaoping tenne un memorabile discorso che ha sovvertito dogmi ritenuti fino ad allora indiscutibili, sancendo la rottura con le fallimentari politiche economiche dell’èra maoista. Il principio del ‘ricercare la verità nei fatti’, che si contrapponeva alla retorica della Rivoluzione culturale, veniva espresso nell’appello rivolto all’élite del partito affinché trovasse finalmente il coraggio, ora che Mao era morto e i componenti della Banda dei Quattro erano stati arrestati, di superare i vincoli e i condizionamenti ideologici che avevano paralizzato la classe dirigente e il paese per anni.
Deng invitava gli alti dirigenti a “emancipare le menti” e a creare un progetto di sviluppo innovativo in grado di liberare la nazione dalla povertà e dall’arretratezza in cui era sprofondata, superando l’equazione ‘socialismo = povertà’ e l’assunto che i modelli socialista e capitalista fossero tra loro del tutto incompatibili. «Naturalmente non vogliamo il capitalismo – dichiarò nel 1979 – ma nemmeno essere poveri sotto il socialismo». Inaugurò una visione pragmatica e lungimirante che puntava alla concretezza, basandosi sul principio ‘a ciascuno secondo il proprio lavoro’, sul riconoscimento del talento e della competenza e su un sistema economico che incentivava la produttività integrando gli ideali comunisti e le pratiche del libero mercato.
Deng chiamò il nuovo modello di sviluppo ‘socialismo con caratteristiche cinesi’, inaugurando un esperimento ambizioso che rompeva con i dogmi del marxismo, e lo seppe guidare con prudenza e gradualità, testando ogni innovazione a livello locale e applicandola sul piano nazionale solo dopo averne verificato l’efficacia. Il metodo, rivelatosi vincente, trasformò radicalmente la società e rilegittimò, non più su base ideologica, il ruolo centrale del Pcc, che avrebbe favorito il processo di cambiamento garantendo al paese la necessaria stabilità. Nel giro di pochi anni la Cina riuscì a imboccare la strada dello sviluppo e in qualche decennio divenne la potenza di prima grandezza che oggi conosciamo. Numerosi sono i problemi ancora da risolvere e le disuguaglianze da ridurre (lo stesso Deng considerava inevitabile che alcuni si sarebbero arricchiti prima di altri), ma intanto oltre 700 milioni di cinesi sono usciti dalla povertà assoluta ed è emersa una classe media di circa 400 milioni di persone.
Alla fine degli anni Settanta la Cina era un paese stremato, ancorato a modelli di sviluppo rivelatisi per molti aspetti catastrofici. Le decine di milioni di morti d’inedia causate dalle velleitarie politiche del Grande balzo in avanti (1958-62) e le innumerevoli violenze generate dalla Rivoluzione culturale (1966-76) possono far intuire quanto sia stato devastante per un intero popolo il tentativo di recidere in modo netto le proprie radici culturali, rinnegando lo stile di vita e le tradizioni.
Dopo la morte di Mao la lotta per il potere s’inasprì e all’ortodossia conservatrice di Hua Guofeng, l’uomo dei “due qualsiasi” (sostenere qualsiasi politica e seguire qualsiasi istruzione indicate dal presidente Mao), si contrappose la linea riformista che ebbe in Deng Xiaoping il suo leader indiscusso. Si scontravano due concezioni economiche antitetiche, la prima che s’ispirava al modello sovietico di pianificazione centralizzata, la seconda che vedeva nelle riforme di stampo liberale e nell’apertura ai capitali stranieri le chiavi di volta della ricostruzione di un sistema produttivo ormai al collasso. La popolazione, esausta, voleva cambiamenti radicali: nel 1978 erano già in atto in alcune regioni forme clandestine di gestione familiare dell’agricoltura che si contrapponevano al sistema delle comuni, rivelatosi fallimentare. Erano i prodomi della decollettivizzazione, che in breve si sarebbe estesa all’intera nazione e al settore industriale, portando al sorgere di un fitto sistema di piccole imprese private e alla costituzione delle zone economiche speciali.
Il miracolo cinese partì da queste premesse, e il merito fu soprattutto di Deng Xiaoping, che seppe muoversi con grande abilità, assecondando e trasformando in soluzioni vincenti le spinte provenienti dal basso e riuscendo a mantenere saldamente il potere senza ricoprire mai posizioni di primo piano, che delegò ad altri, quali Zhao Ziyang e Hu Yaobang, riservando per sé, al fine di cautelarsi, la presidenza della Commissione militare centrale. Il giudizio storico su di lui è controverso, venendogli comunque addebitate gravi responsabilità, per il ruolo che in precedenza egli avrebbe avuto nell’attuazione delle rovinose politiche economiche maoiste e, soprattutto, per la dura repressione della protesta di piazza Tian’anmen (1989).
In anni recenti è spettato a Xi Jinping, paladino a livello mondiale del libero mercato, il compito di dare una nuova scossa al sistema e traghettare l’ormai logoro modello denghiano verso una nuova èra, coniugando principi maoisti, forme parziali e controllate di liberismo economico e valori etici confuciani sotto la vigile guida del Pcc, che ha così ritrovato, una volta ancora, una piena legittimazione.
Maurizio Scarpari
Pubblicato in “La lettura” 2 dicembre 2018
(a cura di Amina Crisma, in collaborazione con www.inchiestaonline.it)