Amina Crisma: Ci sono più Vie della Seta
Recensione a Le Vie della Seta. Popoli, culture, paesaggi a cura di Susan Whitfield (Einaudi 2019, pp. 479, euro 85). Un testo non integrale di questa recensione è stato pubblicato da Il Manifesto
“Via della Seta” è la suggestiva denominazione sorta nel tardo Ottocento e divenuta popolare nel secolo scorso con cui si è soliti convenzionalmente designare il vasto insieme di reti commerciali interregionali che sin dalla fine del I millennio a.C. ha collegato l’Asia all’Europa e al Mediterraneo. E’ una designazione per certi versi fuorviante, poiché svariati generi di prodotti vi erano implicati: oltre ai filati e ai tessuti, v’erano pietre semipreziose, ambra, spezie, metalli, vasellame, vetro, pellicce, medicinali, cavalli, e perfino schiavi. Si tratta di uno spazio multiforme attraverso il quale sono transitati nel corso dei secoli uomini e merci, tecniche e fedi religiose, immagini e racconti, monaci e mercanti, esploratori e avventurieri, banditi e pellegrini. Uno spazio di concretissime interazioni, che al contempo forma l’oggetto di fascinose affabulazioni, e che forse più d’ogni altro ci rivela che sin da un’antichità remota, e non solo dai tempi di internet, l’esperienza umana è costitutivamente fatta di connessioni.
Oggi questo vasto spazio, che ha rivestito a lungo un ruolo di primaria importanza nell’economia planetaria per conoscere poi in età moderna un’eclissi e un declino, torna alla ribalta nella poderosa riconfigurazione dell’ordine geopolitico e geoeconomico del mondo a cui stiamo assistendo. E’ il crescente protagonismo della Cina su scala mondiale a riportarlo al centro della scena, con il progetto di una “Nuova Via della Seta” (BRI, Belt and Road Initiative) che di quella antica viene rappresentata dal governo della Repubblica Popolare Cinese come l’erede e la continuatrice: si tratta di un gigantesco piano strategico di sviluppo infrastrutturale finalizzato a incrementare le connessioni terrestri e marittime fra Asia, Europa e Africa, e destinato ad avere un enorme impatto sugli assetti globali: la sua realizzazione coinvolgerebbe 65 Paesi, equivalenti a circa il 70% della popolazione mondiale.
Mentre si accende il dibattito su tale ambizioso progetto e sulle sue enormi e controverse implicazioni (ne dà conto fra l’altro un aggiornato dossier sul numero di Inchiesta che ora esce, n. 205, luglio/settembre 2019), si moltiplicano gli inviti a ripensarne attentamente le premesse antiche, fra i quali si segnala la grande mostra Dall’antica alla nuova Via della Seta a cura di Louis Godart e Maurizio Scarpari e svoltasi a Roma da settembre 2016 a febbraio 2017 (Tecnostampa 2016), e il volume di Franco Cardini e Alessandro Vanoli La Via della seta, una storia millenaria fra Oriente e Occidente (Il Mulino 2017). Ripercorrendo le vicende di quelle antiche strade fino alle soglie dell’età contemporanea, questo libro ne pone in rilievo la decisiva importanza: si tratta di “un percorso su cui poggiano le nostre radici”, e riattraversarlo non significa soltanto ricostruire il passato, ma comprendere la sostanza del nostro presente, e del nostro futuro, poiché esso ci induce a riconsiderare radicalmente i nostri pregiudizi eurocentrici, l’illusione ottica secondo la quale l’Occidente sarebbe sempre stato il motore delle vicende umane, mostrandoci che per un periodo lunghissimo prima dell’età moderna “la storia fu invece dell’Asia, ed era l’Asia il cuore della civiltà”. Prenderne coscienza è dunque oggi più che mai necessario, di fronte alle trasformazioni globali in atto: “Che lo si voglia o meno, la Via della Seta ha a che fare con le nostre radici e col nostro destino.”
Un cospicuo contributo ad approfondire ulteriormente tale confronto ci viene ora offerto dal volume Le Vie della Seta. Popoli, culture, paesaggi che esce ora da Einaudi (2019, pp. 479), con un ricco corredo iconografico, a cura di una specialista autorevole, Susan Whitfield, autrice di vari studi sulla materia, curatrice della collezione di manoscritti dell’Asia centrale alla BritishLibrary, particolarmente esperta di testi di Dunhuang e di storia intellettuale dell’epoca Tang.
Il libro è frutto del lavoro collettivo di un vasto team internazionale: più di ottanta studiosi di varie provenienze – dal British Museum al Collège de France, dall’Università Beida di Pechino alla Columbia, da Teheran a Vienna, da Bangkok a Kyoto, da Tbilisi a Oxford, solo per evocarne alcune – disegnano un quadro sfaccettato e multiforme che, dopo due parti iniziali dedicate alla mappatura e alla fotografia, si articola in sezioni incentrate, anziché su ripartizioni cronologiche o politiche, su diversi paesaggi: steppe, montagne e altipiani, deserti e oasi, fiumi e pianure, mari e cieli – e tale orientamento è limpidamente e persuasivamente motivato dalla curatrice in relazione alla caratteristica cruciale degli orizzonti che vengono ad essere evocati, e che ne rappresenta la peculiarità costitutiva: “Nelle Vie della Seta è centrale l’interazione oltre i confini, siano essi cronologici, geografici, culturali, politici o immaginari”.
In rapporto ai suoi differenti ambienti, che trascendono tali limitazioni, si ricostruiscono così in pagine scrupolosamente documentate i percorsi delle merci, del denaro, delle tecniche produttive, delle conoscenze, le vie di diffusione delle religioni, dal buddhismo al cristianesimo nestoriano all’islam, le circolazioni dei testi, le interazioni di influenze artistiche, di cui fornisce una delle attestazioni più significative e famose la scultura antropomorfa che connota l’iconografia buddhista, e che tramite il Gandhara si irradia dall’India fino in Cina. Si può davvero comprendere che cosa voglia dire Eurasia osservando le fattezze e i panneggi inequivocabilmente greci dei Buddha che essa rappresenta; e lo si può del pari percepire ammirando il blu oltremare del manto di una nostra Madonna quattrocentesca, la cui intensità è dovuta al lapislazzuli proveniente dall’Indu Kush del quale già Marco Polo, avendone visitato la miniera, celebrava l’ineguagliabile splendore.
Tra i vari argomenti presenti nel libro, trovano spazio aspetti poco noti o generalmente poco frequentati, dal sistema di controllo dell’acqua nelle oasi alla pirateria e allo schiavismo nel Mar Cinese Meridionale, dai rapporti fra i monasteri buddhisti e l’economia delle città all’interazione fra i popoli delle steppe e i cinesi, che risulta ben più complessa di quanto si sia soliti immaginare. Nel suo insieme, questo volume plurale e pluralistico sin dal titolo si caratterizza significativamente nel contrapporre una molteplicità di punti di vista differenti all’univocità e alla compattezza di una certa Grande Narrazione sinocentrica invalsa, in cui perpetuamente predomina l’egemonia prestabilita di un gigantesco protagonista e tutti gli altri (le cosiddette “minoranze”) figurano da minuscoli comprimari. Considerata dagli scenari plurali dell’Asia centrale, non solo tutta la vicenda delle Vie della Seta, ma la stessa storia della Cina si configura assai più frastagliata e multiversa di quanto generalmente non appaia-