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di MAURIZIO SCARPARI
(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)
Diffondiamo da La lettura del Corriere della sera del 21 marzo 2021
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Chi è Stephen Perry? Perché e per conto di chi ha promosso un’azione legale finalizzata a bloccare la pubblicazione in Canada, Stati Uniti e Regno Unito del libro La mano invisibile. Come il Partito Comunista Cinese sta rimodellando il mondo (Fazi 2021) di Clive Hamilton, professore di Etica pubblica alla Charles Sturt University di Canberra, e Mareike Ohlberg, sinologa del Programma Asia del German Mashall Fund?
Perry è un uomo d’affari inglese che può “incontrare chiunque desideri in Cina, da Xi Jinping a scendere lungo tutta la scala gerarchica”. Insignito nel 2018 della prestigiosa China Reform Friendship Medal, conferitale da Xi Jinping e Li Keqiang in persona, Perry presiede il 48 Group Club, influente gruppo di pressione economico-finanziario fondato dal padre Jack, “tramite il quale Pechino adesca le élite britanniche”. Fanno riferimento al Club circa 500 tra le più importanti personalità politiche e imprenditoriali del paese, come Tony Blair o Peter Mendelson, e della Cina, come Li Yuanchao, capo del Dipartimento centrale per l’organizzazione del Partito comunista (Pcc) dal 2007 al 2012 e vicepremier dal 2013 al 2018, e Victor Zhang, vicepresidente di Huawei nel Regno Unito. “Riuscendo ad arrivare sino alle cariche più alte delle élite politiche, imprenditoriali, accademiche e dei mezzi di comunicazione – sostengono gli autori – il club svolge un ruolo decisivo nel plasmare i modi di pensare alla Cina in Gran Bretagna”.
L’analisi circostanziata condotta da Hamilton e Ohlberg li porta a una conclusione sconcertante: “Le reti di influenza del Pcc sono ormai penetrate così a fondo nelle élite britanniche che il paese ha superato il punto di non ritorno e qualunque tentativo di liberarsi dell’orbita di Pechino è probabilmente destinata a fallire”. Tale giudizio può essere esteso, con modulazioni diverse, a tutti i paesi con i quali la Cina abbia coltivato relazioni stabili.
In effetti il fenomeno è alquanto complesso e riguarda l’integrità e la sicurezza nazionale, estendendosi a macchia d’olio sotto i nostri occhi, per lo più disattenti o incapaci di fare quei collegamenti che svelerebbero la trama che il Pcc, attraverso una miriade di dipartimenti, agenzie e organizzazioni, va tessendo. È un modus operandi che rimane sottotraccia, che opera per stringere in una morsa invisibile e tentacolare il “mondo che conta” tramite gli Istituti Confucio, associazioni imprenditoriali, politiche, culturali o di amicizia costituite spesso come “scatole cinesi” (mi si passi l’espressione), per cui non è sempre chiaro o intuibile in quale misura l’associazione o la persona con cui ci si sta relazionando sia legata al Partito. Spesso chi è coinvolto non è consapevole di essere diventato una pedina di un sistema abilmente gestito dal Pcc, che è tutt’uno con il governo.
Tassello importante di questa strategia è il reclutamento di esperti qualificati nei più diversi ambiti, per ottenere informazioni e affidare loro il compito di farsi promotori di iniziative mirate o volte comunque a migliorare l’immagine della Cina, ancor oggi prevalentemente negativa, essendo il paese percepito per lo più come una minaccia, non solo commerciale, ma anche politica e militare. È ormai fin troppo evidente che gli obiettivi strategici cinesi non sono solo commerciali, come si vorrebbe far credere, rientrando in un progetto egemonico mirante a modificare gli assetti geopolitici attuali e spostare il baricentro del consenso e della leadership mondiale da Washington a Pechino. A farsi coinvolgere, allettati da benefici e da riconoscimenti di diversa natura ed entità, sono ricercatori nei più diversi ambiti scientifici, analisti ed esperti di relazioni internazionali, di finanza, economia e diritto, rettori, prorettori, docenti universitari, politologi, giornalisti, ma anche imprenditori, politici in attività, spesso con responsabilità di governo e sottogoverno, ex parlamentari ed ex ministri, ex diplomatici: tutte personalità importanti, portatrici di “relazioni di qualità” in grado di esercitare funzioni di lobby e di favorire la creazione di un consenso diffuso nelle istituzioni e nel paese. Sono gli apripista delle iniziative cinesi, gli “ambasciatori” ai quali viene affidato il compito di sostenere e favorire la Cina. Il fenomeno è diffuso in tutti i paesi, il nostro incluso; se ne è scritto in diverse occasioni, anche su queste pagine, ma mai in modo così articolato e approfondito come hanno fatto Hamilton e Ohlberg.
Un ruolo non secondario nel promuovere le attività all’estero del Pcc lo svolge il Dipartimento centrale di propaganda, molto attivo nel raccontare e far “raccontare bene le storie della Cina”, laddove per “bene” si intende “in modo conforme alla visione del Pcc”. Poco importa l’attendibilità delle narrazioni. Come ha evidenziato Marina Miranda, che insegna Storia della Cina contemporanea alla Sapienza, “le storie così diffuse non devono essere necessariamente aderenti alla realtà, ma soltanto congruenti con la costruzione intenzionale di un’immagine necessariamente positiva del Paese, che contenga messaggi espliciti circa gli obiettivi futuri e modalità di azione, arrivando talvolta a forzare gli eventi o a distorcere fatti scomodi e discordanti”. Questa modalità non corrisponde al concetto di soft power, o di soft power culturale come i cinesi amano etichettare la loro politica di costruzione del consenso, sembra piuttosto la sinica versione dello sharp power, il potere tagliente esercitato dai regimi illiberali nel contesto mediatico e politico di quei paesi individuati come zone di influenza da conquistare o nemici da sconfiggere.
La mano invisibile sembra sfiorare appena l’Italia, con poche pagine per lo più riservate all’ex sottosegretario Michele Geraci e, in misura minore, al World Affairs Institute (T.WAI) di Torino. Sarebbe urgente per il nostro paese redigere una mappatura indipendente ed esaustiva della penetrazione cinese, palese ed occulta, e delle personalità coinvolte, sulla falsariga del lavoro di Hamilton e Ohlberg, o di quello di Toshi Yoshihara e Jack Bianchi sul ruolo delle Associazioni di amicizia (Uncovering China’s Influence in Europe: How Friendship Groups Coopt Europeans Elites, Washington 2020), che dedica un intero capitolo agli stretti legami che Irene Pivetti ha, personalmente e attraverso l’Associazione italiana per l’amicizia con il popolo cinese e altre società da lei presiedute, con organizzazioni e politici affiliati al PCC e al Dipartimento per il lavoro del Fonte Unito. Interessante è anche il tema delle onorificenze e dei premi, la spia, spesso, di un rapporto speciale. In Cina, ad esempio, nel 2019 è stato conferito il Silk Road Super Ambassador Award, riconoscimento in genere riservato ad ambasciatori, effettivi o nominali, che hanno contribuito a promuovere in modo significativo nel proprio paese il progetto sulle Vie della seta, a Massimo d’Alema.
Per quanto riguarda l’Italia, desta una certa curiosità il caso di Xu Niansha, potente esponente del Pcc e presidente del China Poly Group, “la conglomerata costruita attorno alla produzione di armi”, e della sua consociata, Poly Culture, che, a detta di Hamilton e Ohlberg, “risulta inseparabile dal sistema cinese di spionaggio militare”: nel 2017 lo Stato italiano gli ha conferito l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine della Stella in virtù del suo “contributo nel promuovere lo scambio e la cooperazione tra Cina e Italia”. Scavando, ne uscirebbe un quadro interessante e con tutta probabilità inquietante, certamente utile per il futuro del nostro Paese.