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HongKong,democrazia”con caratteristiche cinesi”

di MAURIZIO SCARPARI

(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)

Maurizio Scarpari: Hong Kong. Democrazia con caratteristiche cinesi at work.

| 26 Dicembre 2021 | Comments (0)

 

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Maurizio Scarpari: Hong Kong. Democrazia con caratteristiche cinesi at work.

“Cina e Russia hanno adempiuto attivamente alle loro responsabilità, hanno promosso una risposta unitaria e globale contro il Covid, hanno comunicato il vero significato della democrazia e dei diritti umani e hanno agito come baluardo per seguire il vero multilateralismo e sostenere l’equità e la giustizia nel mondo. Attualmente alcune forze, con il pretesto della democrazia e dei diritti umani, stanno interferendo nei nostri affari interni, calpestando brutalmente il diritto internazionale.” [mio il corsivo]

Così si è espresso Xi Jinping all’inizio di dicembre, nel corso di un lungo colloquio telefonico con Vladimir Putin dopo che entrambi erano stati esclusi dal vertice sulla democrazia organizzato da Joe Biden. Sul “vero significato della democrazia e dei diritti umani” Pechino aveva, in effetti, diffuso in quegli stessi giorni un libro bianco dal titolo China: Democracy That Works (Cina: una democrazia che funziona) realizzato dal Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese. L’obiettivo era contrapporre all’idea occidentale di democrazia, ritenuta superata e inadeguata ad affrontare le sfide geopolitiche del momento, il proprio modello di “democrazia con caratteristiche cinesi” essenziale per “costruire una comunità umana dal futuro condiviso”, il nuovo orizzonte a cui guarda il “socialismo con caratteristiche cinesi della nuova era”, contributo ideologico di Xi Jinping iscritto nello statuto del Partito comunista cinese.

Ma in cosa consiste, al di là della retorica del linguaggio politico alla quale siamo stati abituati leggendo i documenti ufficiali cinesi, questa nuova declinazione del concetto di democrazia? Passando dalla teoria a una dimostrazione pratica, la “democrazia con caratteristiche cinesi della nuova era” la si è vista at work in occasione delle elezioni tenutesi qualche giorno fa a Hong Kong. Dopo aver represso le dimostrazioni pro-democrazia scoppiate nell’ex-colonia britannica tra il 2019 e il 2020; dopo aver cambiato le regole del gioco promulgando una legge sulla sicurezza nazionale volta a eliminare ogni forma di dissenso e una legge elettorale che modifica radicalmente il metodo di selezione del capo esecutivo di Hong Kong (la massima autorità cittadina), il metodo di formazione del Consiglio Legislativo (il mini-parlamento locale) e le procedure di voto (che riguardano un numero limitato di seggi, essendo la gran parte assegnati per nomina, più o meno diretta, da organismi controllati dall’alto); dopo aver istituito una Commissione speciale con il compito di valutare e giudicare la lealtà “patriottica” di ogni aspirante candidato, il tutto in netto contrasto con il principio “un paese, due sistemi” che avrebbe dovuto garantire un alto grado di autonomia all’isola anche una volta tornata sotto la giurisdizione cinese; dopo aver eliminato dalla competizione elettorale i leader dei partiti che a vario titolo si battevano per ottenere forme di governo democratiche nel rispetto dei diritti e delle libertà che avevano caratterizzato fino a pochi anni fa la politica di Hong Kong, imprigionandoli per reati che in un paese democratico coinciderebbero con le normali attività pre-elettorali, o inducendoli ad abbandonare l’isola per evitare la carcerazione; dopo tutto ciò, e altre forme di intimidazione, si sono finalmente tenute le “elezioni patriottiche”. Inutile riportarne l’esito, l’unico elemento di qualche interesse è stato l’affluenza alle urne, praticamente dimezzata rispetto alla tornata del 2016, dal momento che ha votato solo il 30,2% degli aventi diritto.

A poco è servita la reazione immediata del mondo democratico: i ministri degli Esteri dei Paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti) e l’Alto Rappresentante dell’Unione europea per la politica e la sicurezza, Josep Borrel, hanno espresso sdegno e preoccupazione e chiesto “alla Cina e alle autorità di Hong Kong di ripristinare la fiducia nelle istituzioni politiche di Hong Kong e di porre fine all’oppressione ingiustificata di coloro che promuovono i valori democratici e la difesa dei diritti e delle libertà”. E dunque? Un altro tassello si aggiunge alla difficoltà di trovare linguaggi comuni e forme di gestione delle relazioni credibili e condivisibili…

Nel frattempo, nel campus dell’Università di Hong Kong che l’ospitava, è stato rimosso il “memoriale della democrazia negata” noto come “pilastro della vergogna”, la statua di rame che ricordava la violenta repressione delle proteste scoppiate nella primavera del 1989 a Piazza Tiananmen a Pechino che portarono il 4 giugno di quell’anno al massacro di migliaia di studenti e cittadini accorsi in massa a sostenere il desiderio di libertà e democrazia (il numero esatto delle vittime non è mai stato reso noto). La statua, una sorta di torre umana alta otto metri formata da cinquanta corpi, contorti per le torture, avvinghiati gli uni agli altri, ammucchiati alla rinfusa, i volti angosciati dall’orrore che andavano subendo, è stata sottratta alla vista delle decine di migliaia di persone che ogni anno, puntualmente, si raccoglievano intorno ad essa, per non dimenticare. Da tempo il Museo dedicato alle vittime di Piazza Tiananmen era stato costretto alla chiusura e la stessa Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements of China, a cui la statua era stata donata nel 1997 dallo scultore danese Jens Galschiot poco prima che la ex-colonia tornasse sotto la giurisdizione cinese, era stata sciolta dopo l’arresto dei suoi dirigenti e le continue pressioni da parte delle autorità locali.

Queste “elezioni patriottiche” cambieranno per sempre la Hong Kong che abbiamo conosciuto, ed è bene che vengano ricordate come un esempio di “democrazia con caratteristiche cinesi at work”.

 

Le immagini in alto sono relative alla statua donata all’Università di Hong Kong nel 1997 dallo scultore danese Jens Galschiot. La statua rappresenta una torre umana alta 8 metri in cui sono raffigurati volti in preda al terrore, e ricorda la repressione antistudentesca del 1989 nella piazza Tiananmen. Il 22 dicembre 2021 le autorità dell’Università di Hong Kong hanno deciso di rimuoverla per “una valutazione del rischio per il miglior interesse dell’Università”.

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