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Presso il corso di Antropologia Politica (Prof. Luca Jourdan) del Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà, dell’Università di Bologna Valerio Romitelli ha tenuto un seminario sul libro David Graeber, David Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (trad. it. Roberta Zuppet) , Rizzoli, Milano, 2022. Ne uscirà un libro della cui introduzione pubblichiamo qui un paragrafo.
Valerio Romitelli
Lo spirito del tempo
Per inquadrare in rapporto allo “spirito del tempo” la questione di come leggere un libro come L’alba di tutto di Graeber e Wengrow[1] ricorro a tre parametri. Uno è “ideologia”, termine oramai desueto, si sa, ma solo perché l’ideologia ancora in parte dominante, quella democratico neoliberale, non si vuole tale, rifuggendo ogni idea politica e immaginandosi che la democrazia sia l’unico regime di rappresentazione e gestione sempre perfettibile, ma senza alternative, della realtà sociale così com’è. Mentre ideologia designa qui semplicemente un insieme di idee cui ogni politica, che lo ammetta o meno, si rifa. Un secondo è “cultura”. Un terzo, “opinione comune”. Tutti e tre termini di difficile definizione, ma di uso quanto mai corrente che secondo la topica del marxismo più classico sono collocabili nella “sovrastruttura” supposta retroagire a suo modo sulla “base socio-economica” capitalista.
La domanda allora è: come si combinano oggi ideologie, opinione comune e cultura?
Il punto da cui partire è una constatazione assai semplice; che la nostra epoca è profondamente caratterizzata da una duplice disillusione quanto alle ideologie.
La prima disillusione è quella maturata a partire dalla fine degli anni Settanta, accresciutasi negli anni Ottanta e divenuta successivamente irreversibile, al punto da rimettere in discussione ogni fiducia in quell’ideologia comunista che, sia pur contrastata dall’ideologia avversa, quella anticomunista, aveva dominato il secondo dopoguerra ossia l’epoca detta dei “trent’anni gloriosi”, grosso modo tra il 1945 e il 1975. La seconda grande disillusione collettiva, tutt’oggi non ancora giunta al suo acme, ma già evidentemente serpeggiante ha cominciato a configurarsi a partire dall’inizio del terzo millennio, intensificandosi in particolare attorno al 2008, l’anno della più grande crisi mai conosciuta dal capitalismo. A vedere la propria immagine sempre più compromessa in questo caso è l’ideologia che aveva assunto il dominio mondiale dopo quella comunista: sarebbe a dire quell’ideologia a pretesa antideologica che ha fatto della democratizzazione e della mercantilizzazione del mondo i suoi cavalli di battaglia, scortata da una cultura neoliberale che ha saputo egemonizzare l’opinione comune a livello planetario, nonostante ovvie molteplici resistenze locali anche agguerrite, a volte supportate da oscuri revival religiosi o etnici.
Il tutto ridetto in modo più concentrato: dopo l’estenuarsi del fascino politico e intellettuale del “vento dell’est” comunista nel corso degli anni Ottanta, anche il “vento dell’ovest”, democratico, neoliberale, globalista e boriosamente capitalista ha dunque esaurito la sua forza espansiva dopo vent’anni e più di dominio quasi completamente incontrastato.
Una chiara conferma di questa duplice disillusione collettiva, prima nei confronti del comunismo, poi nei confronti della democrazia neoliberale è venuta negli ultimi due decenni dall’emergere prepotente di un’ulteriore ideologia, tanto sorda e aggressiva a livello di opinione, quanto idealmente e culturalmente debole. Sua molla decisiva è una sorta di improbabile ritorno alle tradizioni nazionaliste, identitarie e patriarcali che si sono rianimate solo grazie al venire meno delle speranze in un avvenire globale o comunista o altrimenti democratico. Per questa ideologia rediviva il nome più appropriato è quello di “sovranismo”, un termine oggi rivendicato come tale o tramite sinonimi tanto in occidente quanto in oriente, tanto tra i paesi già più ricchi, quanto tra i paesi in via di arricchimento o ancora poveri, il tutto all’interno di una caotica dinamica conflittuale che sta portando l’umanità intera dritta verso l’esito più estremo della terza guerra mondiale.
Tornando al nostro dibattito sul libro di Graber e Wengrow e cercando di collocarlo nello spirito del nostro tempo dobbiamo notare alcuni caratteri peculiari del dominio dell’ideologia sovranista. Anzitutto il fatto che la sua debolezza culturale, dovuta a riferimenti nazionalisti, etnici, patriarcali, decisamente oscurantisti e reazionari, non è capace di far valere una propria cultura alternativa. Così, come una sorta di parassita, a seconda del paese dove attecchisce, si nutre di quel che resta della cultura preesistente: in Cina di quel che resta della cultura comunista, in Russia della cultura tardo sovietica e d’impronta zarista, negli Stati uniti e tra i suoi alleati della cultura democratica neoliberale. Assistiamo dunque ai casi sempre più frequenti di regimi equivoci, quali quelli detti di post-democratici o democrature o altrimenti raffigurati – l’esempio forse più clamoroso e bizzarro è sempre quello cinese: un socialismo di Stato, al tempo stesso, a partito unico comunista, di mercato, globalista e neoliberale.
In questa grande confusione, l’opinione a favore del sovranismo e delle pregresse culture, comunista e democratica, delle quali si nutre è comunque sempre più spesso minoritaria a fronte di un’opinione sempre più maggioritaria, ma per lo più silente, renitente, rinunciataria, disperata, non di rado rabbiosa e episodicamente rivoltosa. In relazione a quest’ultimo fenomeno, sicuramente uno dei più storicamente importanti degli ultimi tempi, se ne è creato un altro che riguarda esattamente il nostro dibattito su Graeber e Wengrow. Dall’inizio del terzo millennio col successo ovunque riconosciuto di un libro come quello di Toni Negri Impero si è cominciato a vedere che testi di chiara impronta anticapitalista non erano più destinati a un pubblico di nicchia, così come nell’arte contemporanea oramai pare d’obbligo che se in questione c’è un argomento sociale se ne deve trattare in termini di denuncia, protesta, sostegno a lotte contro le ingiustizie presenti.
Da allora artisti, ricercatori, pensatori comunisti, anarchici o comunque dichiaratamente sovversivi hanno ricevuto ascolti inediti. Così se nel mondo del lavoro e della concorrenza economica, se persino nella stragrande maggioranza delle amministrazioni pubbliche a livello globale le dottrine neoliberali continuano ancora a dettar legge, se tra i governi del mondo intero serpeggia il morbo sovranista che fa trascurare tutto tranne armi e strategie belliche, si è formata un’opinione di vasta portata anche essa a livello mondiale che quanto meno pensa che il capitalismo ha fatto il suo tempo e che ci vuole un’alternativa.
Paiono dunque irreversibilmente finiti i tempi nei quali a godere i maggiori consensi culturali e d’opinione erano apologeti del capitalismo nella sua versione più aggressiva, quella neoliberale. Letture dei massimi epigoni di questa tendenza culturale come Friedmann, Hajek, Becker, Fukuyama e così via possono ancora interessare popolazioni di governanti o aspiranti tali, ma a far tendenza sono piuttosto autori dichiaratamente anticapitalisti come Negri, appunto o Deleuze, Foucault, Žižek, Badiou, Harvey, Spivak e appunto Graeber – entrambi gli elenchi detti evidentemente alla rinfusa.
Questo fenomeno non può non essere salutato come segno di speranze per chi come me le ripone nelle ricerche di alternative al capitalismo. Ma non può neanche non suscitare il sospetto che così lo stesso capitalismo si stia dimostrando quanto mai capace di metabolizzare e mettere a profitto le sue stesse critiche, anche le più radicali. Chi può essere così ingenuo da non capire che queste ultime possano funzionare per lo più o solo come merci da vendere?
Tutto sta ovviamente nell’uso che se ne fa. E qui la discriminate è: o per continuare a denunciare e criticare l’onnipotenza trasformistica del capitale compiacendosi anche nell’esaltare le prima o poi immancabili resistenze e lotte contro di esso, oppure per far bilancio anche e sopratutto autocritico sullo stallo in cui sono giunte le sperimentazioni di alternative al capitalismo, cercando di trarne spunto per rilanciarle. Nel primo caso si finisce inevitabilmente per continuare a esternalizzare i problemi restandone spettatori più o meno partecipi, ma sempre spettatori, nel secondo caso, invece, interiorizzando i problemi se ne rende possibile la ricerca di qualche soluzione da attori creativi.
La lettura qui proposta di L’alba di tutto lo interpella alla luce di questa alternativa che come vedremo avrà una duplice e contraddittoria conseguenza. Da un lato, di apprezzare e valorizzare l’idea di fondo di questo testo, sarebbe a dire l’idea di scoprire un’altra preistoria radicalmente diversa da quella storia che alla fin fine ha portato al capitalismo. Da un altro lato, di sollevare parecchi dubbi sul fatto di dovere andare così lontano nel tempo per trovare di che ripensare come riattivare la sperimentazione di alternative al capitalismo.
[1]David Graeber, David Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (trad. it. Roberta Zuppet) , Rizzoli, Milano, 2022