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di AMINA CRISMA
(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)
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Era un interlocutore affascinante e un amico prezioso Renato Rozzi, che se n’è andato il 9 novembre, nella sua Cremona dove era nato nel 1929.
Dopo essersi laureato a Milano con una tesi su Husserl e Freud, aveva lavorato come psicologo in vari luoghi (scuola, carcere minorile, reparto psichiatrico), e aveva insegnato psicologia in varie università (Milano, Trento, Cosenza).
Ma c’è soprattutto un’esperienza importante che lo ha indissolubilmente legato a Inchiesta e al suo fondatore e direttore, come questi ha ricordato in un suo scritto autobiografico (Vittorio Capecchi, “Mezzo secolo di due riviste”, Inchiesta 210/2020, 2-9, www.inchiestaonline.it): l’attività al Centro di Psicologia della Olivetti di Ivrea diretto da Cesare Musatti, dove c’era anche Franco Novara, e dove un giovane Vittorio arrivò come borsista.
Come Vittorio dichiara, Musatti fu per lui una sorta di padre spirituale, e Renato e Franco furono due fratelli maggiori, che “mi fecero capire come si poteva fare un’inchiesta operaia avendo come mandante il sindacato e non il padronato (quella era una delle novità introdotte da Adriano Olivetti)”.
Sull’ esperienza dell’inchiesta operaia alla Olivetti di Ivrea Renato ha lasciato dense riflessioni, nel suo libro Psicologi e operai (Feltrinelli 1975) e nei suoi contributi ai volumi Psicologi in fabbrica (con Musatti, Novara, Baussano, Einaudi 1980) e Uomini e lavoro alla Olivetti (con Novara e Garruccio, Bruno Mondadori 2005). E inoltre, di quell’esperienza condivisa Renato e Vittorio hanno dato testimonianza a Michele Fasano per il documentario del 2011 “In me non c’è che futuro”: Ritratto di Adriano Olivetti (soggetto di Michele Fasano, Michele Menna, Francesco Novara; sceneggiatura e regia di Michele Fasano, produzione SATTVA FILMS).
La prospettiva di Renato, che Vittorio condivideva, si può riassumere nel titolo di una sua bella intervista del 2002 (a cura di Francesco D’Angella, in SPUNTI DELLO STUDIO APS n. 5, 2002, pp. 9-28), “Oltre la visione aziendalista del lavoro con le persone”. Contro ogni reificazione e ogni riduzionismo economicistico, contro “l’incentivazione puramente quantitativa dei lavori sull’uomo”, contro “l’efficientismo ansioso”, per lui lo psicologo dovrebbe ricercare “un riequilibrio qualitativo”, tale da restituire spazio alla soggettività, al “complesso respiro dei vissuti e dei contesti relazionali”, “all’imprevedibilità di ciò che è creativo”. Come egli sottolinea in un’altra sua significativa intervista del 2001 (www.autistici.org), questa concezione del primato della soggettività gli deriva dalla lezione filosofica di Enzo Paci, che è stato suo docente, e “dall’ambito fenomenologico di sinistra, antistalinista, che animava la vita politica alla fine degli anni ’50 e al principio degli anni ’60 a Milano, ed è confluito nei Quaderni Rossi”.
Ad approfondire questa sua riflessione contribuì anche un memorabile viaggio in Cina nel 1971, insieme a Vittorio, a Romano Alquati, a Giovanni Jervis, in cui ebbe modo, fra l’altro, di constatare la distruttività repressiva generata dalla Rivoluzione culturale. Ne trasse la convinzione che “l’uomo non è inquadrabile facilmente in uno schema come quello marxista, e che bisogna tenere presente quello che ha detto Freud”. La questione della soggettività nella sua visuale è percepita nella sua complessità, “come qualcosa che non è nelle mani del partito, per dirla alla maniera antica, e non è nelle mani della classe, per dirla alla maniera dei Quaderni Rossi e di certe parti del ’68, Classe Operaia, Potere Operaio: non è nelle mani di nessuno, perché dal punto di vista profondo l’uomo non è diretto verso delle soluzioni prevedibili, la sua prevedibilità è molto limitata”.
Chissà se e quanto questo genere di riflessioni aveva spazio nel libro sul ‘68 che negli ultimi anni Renato ci diceva di avere in mente, e chissà se qualche traccia o qualche appunto ne è rimasto, su qualche foglio, nella sua casa di fronte al duomo, dove abbiamo passato con lui bei pomeriggi, a chiacchierare e ad ascoltare insieme un po’ di musica.
E così, è alla leggerezza di un motivo musicale che mi viene di associare soprattutto il suo ricordo, a qualche aria del Don Giovanni, e delle Nozze di Figaro. E all’immagine pregnante e suggestiva di un viaggio in Normandia che Vittorio e Renato mi hanno raccontato di aver fatto insieme, con Jervis e con Novara, da giovani: l’immagine di cavalli al galoppo, sulla riva del mare, sulla spiaggia di Balbec-Cabourg.