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Hong Kong: un monito per il futuro

di MAURIZIO SCARPARI

(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)

 

Maurizio Scarpari: Hong Kong, un monito per il futuro

| 14 Gennaio 2025 | Comments (0)

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Pubblichiamo quest’articolo di Maurizio Scarpari apparso su Il Mulino, 4, 2024, pp. 140-150, per gentile concessione della rivista e dell’autore.

Maurizio Scarpari

Hong Kong: un monito per il futuro

 

Lord Christopher Francis Patten, ultimo governatore britannico di Hong Kong e attuale rettore dell’Università di Oxford, convinto che «una delle leggi immutabili della storia sostiene che non si può debellare un’idea imprigionando i suoi sostenitori», concludeva la prefazione al libro di Joshua Wong e Jason Y. Ng Noi siamo la rivoluzione. Perché la piazza può salvare la democrazia (trad. it. Feltrinelli, 2020) con un monito affatto banale, avendolo posto alla vigilia di eventi drammatici che avrebbero cambiato il futuro e i destini non solo di Hong Kong:

Spero che nel frattempo il mondo resti attento per capire fino a che punto ci si possa fidare della Cina e delle sue promesse. Per quanto riguarda me e tanti altri, mi fido più di Joshua che dei burocrati comunisti di Pechino o di chi li appoggia fuori o dentro la città.

Joshua è Joshua Wong, il giovane leader politico fondatore del movimento studentesco Scholarism e, insieme ad Agnes Chow e Nathan Law, di Demosistō, il partito di punta delle proteste pro-democrazia sciolto nel 2020, che si batteva contro l’ingerenza delle autorità di Pechino nell’autonomia di Hong Kong.

Era il maggio 2018. Il libro è un manifesto di lotta e di speranza, nel quale i due autori raccontano i momenti più significativi delle loro vicissitudini e le ragioni che hanno spinto migliaia di giovani e non più giovani alla protesta, trasformatasi infine in lotta per la sopravvivenza sia per i rivoltosi, determinati a difendere i loro ideali e i loro diritti mettendo a rischio la propria incolumità, sia per i politici dell’ex colonia e ancor più per i dirigenti della Cina continentale, questi ultimi interessati principalmente a conservare i propri privilegi, personali e di casta, e a ribadire l’ineluttabile affermazione del Partito comunista come guida della nazione.

I manifestanti si sono schierati in difesa dei valori civili e politici a cui erano abituati fin dalla nascita e che vedevano minacciati dal ricongiungimento di Hong Kong alla madrepatria. I loro timori erano più che fondati, come aveva predetto Lord Patten un anno prima che scoppiassero i disordini del 2019-2020, la cui reazione ha rivelato quale fosse l’intento della dirigenza cinese fin dal momento della firma della Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984, con la quale il governo conservatore guidato da Margaret Thatcher si impegnava a lasciare la colonia il 1° luglio 1997, dopo 156 anni di dominio inglese. L’accordo prevedeva un periodo di transizione di 50 anni per consentire alle autorità di promulgare ordinamenti più liberali rispetto a quelli vigenti nella Repubblica popolare cinese, in ossequio al principio costituzionale ideato da Deng Xiaoping nel 1979 «un Paese, due sistemi». La Dichiarazione prevedeva inoltre che il sistema politico ed economico di Hong Kong sarebbe rimasto invariato per tutto il periodo di transizione.

Il processo di integrazione dei principi democratici con i valori e le regole di organizzazione politica e sociale della Cina continentale non si presentava semplice da attuare, essendo la volontà popolare rimasta esclusa dalle trattative che hanno portato alla restituzione della colonia: la concessione dei diritti fondamentali e, soprattutto, del suffragio universale rappresentava un ostacolo insormontabile poiché avrebbe creato un pericoloso precedente per il sistema di governance dell’intera Cina. Un rischio che le autorità di Pechino non potevano correre allora, e ancor meno oggi.

Com’è evoluta la situazione è fatto noto. Il 15 marzo 2019, in seguito all’iniziativa del governo locale di emendare la legge sull’estradizione verso Paesi con cui non esistevano accordi, in particolare la Repubblica popolare cinese, sono scoppiate una serie di proteste antigovernative di crescente intensità e partecipazione popolare: i manifestanti, per lo più giovani attivisti legati ai movimenti e ai partiti pro-democrazia, temevano, non senza fondamento, che la modifica legislativa avrebbe violato il principio stesso che è alla base dell’autonomia giuridica di Hong Kong, garantita dal principio «un Paese, due sistemi», sottoponendo i suoi residenti alla giurisdizione della Cina continentale, ben più vincolante, autoritaria e repressiva. Ottenuta l’abrogazione dell’emendamento, le proteste sono presto sfociate nella richiesta di libere elezioni, allargando così l’orizzonte della contestazione e riproponendo, in termini potenzialmente più dirompenti, le condizioni che si erano venute a creare durante la cosiddetta «rivoluzione degli ombrelli» del 2014. A metà giugno 2019 oltre due milioni di cittadini, più di un quarto della popolazione residente, in prevalenza giovani ma non solo, si accalcarono lungo le piazze e le strade per manifestare pacificamente il loro appoggio alle proteste, in difesa dei valori e dei principi democratici a cui non intendevano rinunciare. Le immagini di quelle manifestazioni e le interviste raccolte nel docufilm Revolution of Our Times del regista Kiwi Chow (Hong Kong, 2021) rappresentano la testimonianza più vivida dell’anelito di un popolo verso ideali di libertà e contro ogni forma di oppressione.

Alternando momenti di maggiore e minore intensità, le manifestazioni sono durate mesi e gli scontri tra le frange più intransigenti e le forze dell’ordine sono diventati sempre più aspri. Nel dicembre 2019 si sono tenute le elezioni amministrative per il rinnovo dei consigli distrettuali, a cui ha partecipato il 71,2% degli aventi diritto, oltre tre milioni di cittadini, un numero doppio rispetto a quello registrato nelle consultazioni precedenti: più del 90% dei seggi e 17 distretti su 18 sono stati conquistati da candidati pro-democrazia. Si è trattato di uno straordinario successo di popolo, ma è stato anche un campanello d’allarme per il governo cinese. Il significato simbolico di quella vittoria va ben oltre il valore localistico delle elezioni; infatti, una così alta partecipazione in favore della democrazia è stata interpretata dalle autorità come un attacco diretto al governo di Pechino, al Partito comunista e all’integrità del sistema politico cinese. La reazione non si è fatta attendere: in Cina e presso le comunità cinesi d’oltremare è stata orchestrata una campagna denigratoria virulenta contro i «traditori della patria», la repressione si è fatta sempre più violenta e ha portato alla graduale chiusura di ogni forma di espressione democratica e di autonomia nell’ex colonia.

Proprio quando il mondo veniva travolto dagli effetti devastanti della pandemia Covid-19, il 28 maggio 2020 l’Assemblea nazionale del popolo della Repubblica popolare ha autorizzato il comitato permanente ad adottare una legge sulla sicurezza nazionale che ha limitato fortemente le libertà civili e politiche sancite dalla Legge fondamentale (Basic law) di Hong Kong, aggirando in questo modo il Consiglio legislativo, l’organo parlamentare della città. La nuova legge è entrata in vigore il primo luglio 2020. Nel marzo 2021 è stata inoltre emendata la legge elettorale ed è stata costituita una Commissione speciale con il compito di valutare la «lealtà patriottica» di ogni aspirante candidato, prerequisito imprescindibile per poter partecipare alla competizione elettorale. Su queste basi, i partiti pro-democrazia sono stati messi al bando o, comunque, indotti alla chiusura, essendo i loro leader finiti in prigione con l’accusa di attività sovversive e antigovernative o costretti a rifugiarsi all’estero per evitare il carcere.

Sono state quindi indette nuove elezioni politiche per il rinnovo del Consiglio che, disertate da oltre i due terzi degli aventi diritto, hanno definitivamente sancito il controllo di Pechino sul Porto profumato, a dispetto non solo degli impegni sottoscritti ma anche della scadenza concordata del 2047. L’8 maggio 2022, in violazione dei più basilari principi democratici e del pluralismo politico, l’unico candidato ammesso per il ruolo di capo dell’esecutivo, John Lee Kua-chiu, ex poliziotto ed ex sottosegretario alla sicurezza gradito a Pechino, distintosi per la sua intransigenza nei confronti dei partiti pro-democrazia e per il ruolo chiave svolto nella repressione delle proteste, ha vinto le «elezioni patriottiche» con il 99,4% dei voti. Il primo luglio 2022 ha assunto la carica, due anni esatti dopo l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale e 25 dal trasferimento di Hong Kong alla madrepatria. Infine, il 19 marzo 2024 sono state introdotte importanti modifiche alla legge per la sicurezza del 2020 approvando all’unanimità un’ordinanza, nota come «Articolo 23 della Legge fondamentale», che prevede l’emanazione di norme più rigide volte a regolamentare ed eventualmente punire i reati di tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il governo centrale, furto di segreti di Stato, divieto per le organizzazioni o gli enti politici stranieri di condurre attività politiche e divieto per le organizzazioni o gli enti politici locali di stabilire legami con organizzazioni o enti politici stranieri. Per i reati più gravi, come tradimento e insurrezione, è previsto l’ergastolo. Sono stati introdotti anche il reato di «tradimento per negligenza», che mira espressamente a colpire quanti non riferiscano comportamenti che attentino alla sicurezza dello Stato di cui sono a conoscenza, e il reato di «intenzione sediziosa», che prevede, con ampi margini discrezionali di valutazione, che possa essere punito l’incitamento all’odio, al disprezzo, o la semplice disaffezione nei confronti della Cina, nonché dei governi locale e centrale e del sistema legale vigente: in poche parole ogni forma di dissenso.

Due settimane e mezza prima della modifica legislativa, il 6 febbraio 2023, era iniziato il processo a 47 attivisti incarcerati con l’accusa di sedizione, per avere organizzato manifestazioni ed elezioni primarie non autorizzate, e di cospirazione volta a sovvertire il potere statale e costringere le autorità locali alle dimissioni. Tra gli imputati figurano politici, ex parlamentari, accademici e attivisti, per lo più esponenti di spicco dell’opposizione filodemocratica, tra i quali anche Joshua Wong. Il processo si è tenuto presso l’Alta corte di Hong Kong senza giuria e al cospetto di tre giudici scelti da un pool di giuristi selezionati personalmente dal neogovernatore John Lee. Nella speranza di ottenere sconti di pena, 31 imputati si sono dichiarati colpevoli. Nella seduta del 30 maggio, dei 16 dichiaratisi non colpevoli 14 sono stati giudicati colpevoli: tutti rischiano l’ergastolo, una pena all’apparenza sproporzionata, prevista però dalla legge sulla sicurezza nazionale.[1] Inoltre, il 29 agosto 2024 sono stati condannati per pubblicazione di «materiale sedizioso» i giornalisti Chung Pui-kuen, fondatore e direttore di Stand News, una delle più importanti testate online indipendenti di Hong Kong, sorta nel 2014 in difesa dei valori democratici e dei diritti umani e costretta alla chiusura nel 2021 in quanto «strumento per diffamare le autorità centrali di Pechino e il governo locale», e Patrick Lam, suo successore dopo l’arresto di Chung avvenuto nel novembre dello stesso anno. Nel giro di vent’anni Hong Kong è così precipitata dal 18° al 135° posto (su 180 Paesi considerati) nella classifica sulla libertà di stampa redatta da Reporters sans Frontières (Rsf), l’organizzazione non governativa e non-profit con sede a Parigi che monitora, promuove e tutela la libertà di informazione e di stampa nel mondo.

Il mondo ha assistito impotente alla presa di Hong Kong, gli affari non ne hanno risentito e le nostre coscienze hanno trovato presto un punto di equilibrio accettabile. Le poche proteste e le dichiarazioni dei governi stranieri sono servite solo a infastidire le autorità di Pechino, che hanno chiesto a chiunque commentasse la sentenza di assumere una posizione «obiettiva e imparziale» e di «interrompere senza esitazione ogni forma di interferenza negli affari interni di Hong Kong e della Repubblica popolare cinese». Nabila Massrali, portavoce del Servizio europeo di azione esterna (Seae) istituito per rendere più coerente ed efficace la politica estera dell’Ue e rafforzarne l’influenza sulla scena mondiale, ha dichiarato che

gli imputati coinvolti nelle elezioni primarie non ufficiali organizzate dall’opposizione pro-democrazia a Hong Kong nel luglio 2020 vengono colpiti per un’attività politica pacifica che dovrebbe essere legittima in qualsiasi sistema politico che rispetti i principi democratici fondamentali. L’Ue è profondamente preoccupata per il procedimento giudiziario motivato politicamente contro i 47 difensori della democrazia, la prolungata detenzione preventiva e il rifiuto della libertà su cauzione per la maggior parte degli imputati, che minano la fiducia nello Stato di diritto sancito dalla Legge fondamentale di Hong Kong.

Colpiscono il metodo adottato, il disprezzo verso ogni forma di dissenso e di dialettica politica, l’uso strumentale dell’ordinamento giuridico a fini politici: ancora una volta il diritto e gli organismi internazionali vengono chiamati in causa solo quando servono ai propri interessi, ignorati nel caso contrario. La sproporzione delle pene previste rispetto ai reati di cui gli imputati sono stati accusati, sostanzialmente rubricabili tra i reati di opinione, mette in luce l’arroganza del potere, la disinvoltura con cui è venuta meno l’osservanza degli impegni sottoscritti al più alto livello istituzionale e l’inattendibilità di una classe politica che quegli impegni aveva promosso e sottoscritto. Un monito per tutti coloro che, a vario titolo, sono deputati a tessere relazioni con un governo dispotico che ha tra i suoi obiettivi dichiarati ristabilire la centralità della Cina nel panorama politico, economico e militare mondiale, com’era stato per millenni nella concezione cinese tradizionale di stampo imperiale, e operare fattivamente per l’istituzione di un nuovo ordine internazionale che, a parole vorrebbe multipolare, ma che nei fatti non potrebbe che essere a trazione cinese.

È da ammirare, per contro, il coraggio degli attivisti, molti dei quali giovanissimi, che non hanno esitato a mettere a rischio la propria libertà, il proprio futuro e la propria incolumità per difendere ideali e valori ritenuti superiori alla vita stessa, in ossequio alla migliore tradizione confuciana che da più di duemila anni ha plasmato la cultura e lo stile di vita, individuale e sociale, dei cinesi e di gran parte delle popolazioni limitrofe.

Cosa ha motivato tanto coraggio? Non la ragione che, come David Hume ha osservato,

da sola, non può mai essere motivo di una qualsiasi azione della volontà; e […]non può mai contrapporsi alla passione nella guida della volontà. […] La ragione è, e può solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse. (Opere, Laterza, 1971, vol. 1, pp. 434, 436)

Mutatis mutandis questa tesi trova riscontro nella migliore tradizione confuciana, che distingue diversi livelli di coraggio, sostenuti tutti, anche se con modulazioni e intensità diverse, da quell’energia psicofisica che pervade l’intero cosmo fin dalle origini ed è fonte di vita per i diecimila esseri e processi (wanwu 萬物): il qi 氣. È questa energia primigenia che nell’uomo muove il xin 心, che è cuore e mente, organo pensante e sede dei sentimenti, delle emozioni, delle passioni e che, in virtù di questa duplice natura, governa le passioni, indirizza la volontà, forgia il temperamento, plasma il carattere: «Questa energia vitale non può essere contenuta dalla forza fisica, può però essere stabilizzata dall’eccellenza morale (de 德)» recita un testo del IV secolo a.C., il Neiye (Coltivazione interiore). Se nutrita dall’integrità morale questa forza possente è complementare alla rettitudine e al senso di giustizia (yi 義), e fa agire le persone di valore non solo e non tanto sulla base della loro prestanza fisica o di motivazioni razionali, quanto piuttosto sulla spinta di impulsi istintivi che traggono fondamento da ren 仁, il senso di umanità, l’amore per il prossimo, la virtù che tutte le altre abbraccia e completa, e che definisce, in sintonia con yi, il comportamento appropriato da assumere in ogni circostanza.

L’intima corrispondenza fra queste due virtù costituisce la quintessenza dell’umanesimo confuciano: «Vedere ciò che è eticamente appropriato e giusto – recita una massima attribuita a Confucio (551-479 a.C.) – e non agire di conseguenza denota grave mancanza di coraggio» (Lunyu, Dialoghi, 2.24). Il coraggio (yong 勇) a cui si fa qui riferimento è una delle tre qualità distintive del junzi 君子, la persona esemplare per virtù e nobiltà d’animo, insieme all’amore per il prossimo (ren) e alla saggezza (zhi 智): ren indicherebbe «cosa va fatto», zhi «come va fatto», mentre yong conferirebbe alla persona di valore la vigoria morale e la determinazione per «farlo» (Lunyu 9.29, 14.28).

Non vi è dunque solo il coraggio di chi non teme il pericolo o i propri avversari, vi è anche il coraggio morale (yongqi 勇氣), più nobile ed elevato, che impedisce alle persone di valore di accettare le ingiustizie e di sottrarsi a propri doveri, intellettuali e sociali. Grazie all’educazione e all’accumulazione di azioni rette le persone di valore agiscono in modo appropriato affidandosi alla capacità innata e istintiva negli esseri umani di discriminare il bene dal male e di provare gioia nel compiere buone azioni, motivati dalla convinzione di trovarsi nel giusto poiché mossi da una passione autenticamente morale (yiqi 義氣). Costoro sono pronti a compiere atti eroici per il bene comune, sacrificando ogni privilegio personale, persino la propria vita se necessario, come asserisce Mencio nel Mengzi (Maestro Meng, 6A.10), l’esponente di punta del confucianesimo idealista vissuto intorno al IV secolo a.C., da cui il presidente Xi Jinping è solito attingere per i suoi discorsi pubblici:

Il pesce è tra i miei cibi preferiti, ma anche la zampa d’orso è tra i miei preferiti. Non potendoli avere entrambi, rinuncerei al pesce per la zampa d’orso. Alla vita pure anelo con ardore, ma anche la rettitudine e il senso di giustizia rientrano tra le mie maggiori aspirazioni. Dovendo scegliere, anteporrei la rettitudine e il senso di giustizia alla vita stessa. Desidero molto la vita, ma poiché vi sono cose che desidero ancora di più, non farei nulla di sconveniente pur di conservarla. Così è anche per la morte: è tra le cose che maggiormente aborro, ma poiché vi sono cose che mi ripugnano ancor di più, non mi preoccupo troppo di scansare certi pericoli. Se l’uomo non avesse nulla di più prezioso della vita a cui tenere, cosa non farebbe pur di conservarla? Se per lui non vi fosse nulla di più esecrabile della morte, cosa non farebbe pur di non esporsi a situazioni pericolose? Appare evidente che se vi sono casi in cui non si ricorre a ogni mezzo pur di conservare la propria vita e casi in cui, pur potendo evitare di esporsi a situazioni pericolose, non si fa nulla di concreto per evitarle, è perché esistono valori più importanti della vita e azioni più ripugnanti della morte. Un cuore siffatto non è appannaggio esclusivo delle persone di valore, è anzi comune a tutti; solo le persone di valore, però, sanno come mantenerlo integro.

L’umanesimo confuciano non ha retto però l’urto con la modernità, ha perso il confronto con un sistema ideologico d’importazione – il marxismo-leninismo – rivisitato e adattato per soddisfare ambizioni ideologiche, nazionaliste e personali e garantire la sopravvivenza della nuova borghesia stabilitasi al potere. Il suo recente recupero, dopo decenni di forte ostracismo, è in gran parte strumentale al conseguimento degli obiettivi politici fissati dal Partito comunista e dal governo che di quel partito è emanazione. I valori delle democrazie liberali, il diritto alle libertà individuali, il pensiero creativo, i culti religiosi e le pratiche connesse vengono considerati elementi destabilizzanti per le istituzioni, la società e la permanenza al potere, e quindi vengono tenuti sotto stretto controllo e duramente repressi se necessario. Un inaridimento intellettuale e spirituale legato al prevalere di interessi di natura ideologica e mercantile mascherati da nobili ideali e da spirito umanitario che, alla lunga, non hanno però retto l’urto con l’evidenza (M. Scarpari, La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, il Mulino, 2023).

Il modello di «democrazia con caratteristiche cinesi», quale si evince dal libro bianco Cina, una democrazia che funziona, pubblicato il 4 dicembre 2021, alla vigilia del Summit for Democracy indetto da Joe Biden, dall’International Democracy Forum organizzato a Pechino in risposta all’iniziativa americana, e soprattutto in concomitanza con le «elezioni patriottiche» a Hong Kong, è ritenuto dalle autorità cinesi migliore e più funzionale rispetto a quello liberale, rappresentando un tassello essenziale nel processo di «costruzione di una comunità dal futuro condiviso», caposaldo della politica estera cinese. Il caso di Hong Kong dimostra inequivocabilmente quanto ampia sia la distanza tra concezioni diverse e tra le belle parole che le descrivono e la loro effettiva applicazione. I valori democratici come sono intesi in Occidente sono sempre più in pericolo, libertà e diritti che sembrano acquisiti non sono affatto scontati; se non vengono costantemente meditati e difesi a ogni costo si possono logorare e persino perdere: è stupido arrivare a tanto per comprenderne il grande valore.

Quei ragazzi coraggiosi hanno sacrificato la loro vita privilegiata, il loro futuro e la loro libertà lottando per la difesa di ideali e valori con cui sono stati educati e in cui credono con la stessa risolutezza intellettuale e morale che ebbero il secolo scorso i giovani che si batterono con analogo impegno e vigore per costruire una Cina migliore. Cionondimeno la lotta per Hong Kong è stata persa nella sostanziale disattenzione del mondo, com’è successo per altre importanti battaglie di civiltà. A un destino simile sembra destinata Taiwan, nonostante si tratti a tutti gli effetti di uno Stato sovrano, anche se a riconoscimento limitato. Si chiuderebbe così il «secolo della vergogna e dell’umiliazione nazionale», una ferita mai rimarginata inferta al popolo cinese dalle potenze imperialiste occidentali e dal Giappone a metà dell’Ottocento e per parte del Novecento. Taiwan è una tra le democrazie più avanzate del pianeta, il cui processo di maturazione è avvenuto di pari passo con la formazione di una nuova identità nazionale, incompatibile con il sistema di governance della Cina continentale e in continua evoluzione, come si evince da un sondaggio condotto nel 2020 dal Centro studi elettorali della National Chengchi University di Taipei, secondo il quale solo il 2,5% della popolazione si sente cinese (contro il 25% nel 1992), mentre il 62,8% si sente taiwanese (17,6% nel 1992) e il 30,5% sia cinese che taiwanese (46,4% nel 1992); il restante 4,2% non ha risposto (10,5% nel 1992).

Non è però solo Taiwan a dover temere la proiezione istituzionale e morale della «Cina della nuova era» sul piano internazionale, a giudicare dai crescenti contenziosi territoriali che la Repubblica popolare ha con i paesi limitrofi, per lo più causati dal mancato rispetto delle regole sancite dal diritto internazionale e delle deliberazioni e sentenze degli organismi preposti al loro controllo, e dalle alleanze e partenariati sempre più vincolanti sul piano politico, economico e strategico-militare con altri regimi autocratici, Federazione russa in primo luogo, in funzione delle proprie ambizioni egemoniche in chiave antioccidentale, che non possono più essere sottovalutate o ignorate.

Concludo, così come ho iniziato, con le parole di Lord Patten:

Le persone che sostengono che l’unico modo per dialogare con Joshua e i suoi amici sia ricorrere allo stato di diritto sono le stesse che sono rimaste in silenzio e hanno girato la testa dall’altra parte mentre i cittadini di Hong Kong venivano portati via dalla polizia segreta del Partito comunista cinese, senza alcun riguardo per l’autonomia e le leggi di Hong Kong. Forse quello che altri hanno visto non è veramente accaduto.

[1] Dopo la pubblicazione dell’articolo è stata emessa la sentenza, che prevede per i colpevoli pene detentive fino a dieci anni.

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