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Maurizio Scarpari: La Cina di Hu Yaobang sfiorò la democrazia (ma poi Deng disse no)

di  MAURIZIO SCARPARI

(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)

Maurizio Scarpari: La Cina di Hu Yaobang sfiorò la democrazia (ma poi Deng disse no)

| 28 Gennaio 2025 | Comments (0)

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Pubblichiamo con il consenso dell’autore questo articolo di Maurizio Scarpari apparso su

La Lettura (Corriere della Sera), 687, 26 gennaio 2025, p. 7.

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Maurizio Scarpari

La Cina di Hu Yaobang sfiorò la democrazia (ma poi Deng disse no)

La storia non procede in modo lineare, le esperienze che la compongono sono spesso soggette a trasformazioni imprevedibili che possono portare a salti qualitativi e brusche rotture che plasmano gli eventi, indirizzandoli lungo traiettorie permeate di incertezze e imprevisti. Tali punti di svolta sono decisivi nel tracciare il futuro e la sua intrinseca complessità, creando connessioni tra passato e presente attraverso una continuità ricca di parallelismi, momenti creativi, scelte strategiche e occasioni perdute secondo dinamiche tendenti a sfuggire al controllo umano.

Le politiche di «riforma e apertura» promosse tra il 1978 e il 1982 da Deng Xiaoping per contrastare l’estrema povertà in cui si trovava la Cina dopo la morte di Mao Zedong rappresentano uno di quegli snodi che hanno cambiato la storia. Deng aveva compreso che solo allentando la presa ideologica del Partito-Stato su economia e società, e favorendo l’apertura al mondo esterno e l’afflusso di investimenti esteri, si sarebbe potuta avviare quella trasformazione radicale che ha portato il Paese, isolato nel contesto internazionale dopo un trentennio segnato da fallimenti e profonde sofferenze, a diventare nel giro di pochi decenni la seconda potenza economica, politica e militare a livello globale.

Parte significativa di quel successo era dovuta a un altro esponente politico di spicco, Hu Yaobang, uno dei protagonisti meno noti, ma non per questo meno importanti, della storia cinese del Novecento e artefice, insieme a Deng, di quel movimento riformista che creò i presupposti del cosiddetto «miracolo cinese». Lo afferma Robert L. Suettinger in The Conscience of the Party: Hu Yaobang, China’s Communist Reformer (Harvard University Press, 2024), un’opera innovativa che getta nuova luce sulla figura umana e politica di Hu, sottolineandone i meriti nel processo di elaborazione e messa in pratica delle politiche di «riforma e apertura».

Nato nel 1915, rivoluzionario della prima ora, idealista, leale, sincero riformista, Hu fu uno dei più fedeli alleati di Deng che dopo trent’anni di intensa collaborazione lo pose alla guida del Partito comunista, dal 1981 al 1987. Hu fu tra i primi a manifestare il suo dissenso per gli eccessi del maoismo e a battersi per maggiori libertà, e per questo pagò un prezzo. Il suo rapporto con Deng si incrinò quando, a metà degli anni Ottanta, insistette troppo su innovazioni – quali il ricambio generazionale, la libertà di espressione e maggiore partecipazione democratica – che a suo parere avrebbero assicurato una prospettiva solida al processo di trasformazione, ma che gli anziani del partito non erano disposti a concedere.

Hu Yaobang era convinto che per garantire una stabilità sociale duratura fosse necessario proseguire con coraggio verso una maggiore democratizzazione, non essendo sufficienti, alla lunga, le sole riforme economiche: una visione lungimirante, di grande attualità, viste le crescenti difficoltà economiche e disparità sociali. Deng temeva che tale percorso avrebbe portato all’adozione dei principi liberali in stile occidentale e decise quindi di non procedere su un terreno che a suo parere avrebbe messo a rischio la legittimità e forse la sopravvivenza stessa del partito. Nel gennaio 1987 Hu venne aspramente criticato e costretto a dimettersi. Rispettando l’unità di vedute all’interno della leadership si ritirò in buon ordine, ma le sue idee ormai circolavano e avevano presa sulla gente, che lo considerava «la coscienza del partito», senza la quale il partito stesso era destinato a perdere la rotta.

Hu morì nell’aprile del 1989. Studenti e cittadini di ogni estrazione ed età trasformarono il lutto in un’occasione di lotta e si radunarono a centinaia di migliaia in piazza Tiananmen per protestare pubblicamente per la mancanza di riforme politiche più aperte ai bisogni della gente e contro la corruzione dilagante, chiedendo più libertà, più democrazia e migliori condizioni di vita. Seguì un momento drammatico: dopo settimane di discussioni e trattative, nella notte tra il 3 e il 4 giugno per ordine di Deng i carri armati entrarono in piazza e dispersero brutalmente la folla dei manifestanti lasciando sul terreno un numero imprecisato di morti, stimato nell’ordine delle migliaia. Fu una tragedia che scosse il mondo intero, ma venne dimenticata troppo in fretta, in Cina come altrove. Su Deng ricadde la responsabilità della repressione.

Che cosa sarebbe successo, è lecito chiedersi, se si fosse imboccata la direzione opposta, com’è avvenuto a Taiwan, un paese che è riuscito a effettuare con successo la transizione da un regime dittatoriale di fatto a partito unico – quello nazionalista di Chiang Kai-shek, il Kuomintang – a una democrazia compiuta senza subire ricadute autoritarie? Se le mire di Xi Jinping si dovessero realizzare, tale democrazia verrà cancellata, com’è avvenuto a Hong Kong.

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