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Esposizione senza protezione all’amianto

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 dicembre 2012, n. 49815

Sul ricorso proposto dal G. G., nato a Bergamo, il 13 luglio 1946, avverso la sentenza n. 356/2011 della Corte di appello di Brescia del 4 novembre 2011; sentita la relazione fatta dal Consigliere F. M.; visti gli atti, le sentenza e il ricorso; udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale V. D., il quale ha concluso per il rigetto del ricorso; Udito il difensore del ricorrente, avvocato P. P. del foro di Bergamo, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso, osserva:

 

Motivi della decisione

 

1. G. G. è stato tratto a giudizio davanti al Tribunale di Bergamo per rispondere del reato di cui all’articolo 589 commi 1, 2 e 3 c.p. in relazione agli articoli 4, lett. b), c), 21, 26 d.PR. 303/56, 377 e 387 d.PR. 547/55, 2087 cod.civ., per avere, nella sua qualità di direttore dello stabilimento (della S. S.p.A.) sito in Osio Sopra (BG) dall’1.04.1978 al 4.07.1989, cagionato a R. A., dipendente della menzionata società dal 1960 al 1993, in particolare come operaio addetto al reparto “massa porosa” dal 1969 al 15.10.1984, lesioni personali, consistenti in neoplasia polmonare in soggetto affetto da silicosi e note di asbestosi, che ne determinavano la morte in data 8.08.2005; nonché a G. G., dipendente della menzionata società dal novembre 1977 al 2000, in particolare come operaio addetto al suddetto reparto “massa porosa” dal 7.11.1977 al 18.12.1984, lesioni personali, consistenti in neoplasia polmonare, segnatamente adenocarcinoma, che ne determinavano la morte il 17.08.2006. La colpa sarebbe consistita nel non avere reso edotti i lavoratori addetti al predetto reparto “materie porose” dei rischi specifici cui erano esposti e comunque nel non avere portato a loro conoscenza i modi di prevenire i danni dai rischi predetti; nell’avere inoltre omesso di adottare i provvedimenti atti ad impedire o ridurre lo sviluppo e la diffusione di polveri; e, infine, nel non avere fornito ai lavoratori eventuali mezzi tecnici di protezione e nell’avere omesso di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori stessi, esponendo così R. A. e G. G. in modo intenso e prolungato a polveri d’amianto, che ne cagionavano la citata malattia professionale, con le gravi conseguenze sopra evidenziate.

2. Con sentenza del 6 maggio 2010 il Tribunale di Bergamo dichiarava G. G. responsabile del reato di cui sopra e, concesse le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla aggravante contestata, lo condannava alla pena di un anno e due mesi di reclusione e alle spese di giudizio, con i doppi benefici; dichiarava altresì estinta per concessione dell’indulto la pena inflitta, nella misura di mesi 8.

Avverso la decisione del Tribunale di Bergamo proponeva appello il difensore dell’imputato.

La Corte di Appello di Brescia, con la sentenza oggetto del presente ricorso emessa in data 4.11,2011, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Bergamo, assolveva il G. dal delitto di omicidio colposo in danno di G. G. perché il fatto non sussiste; riduceva la pena inflitta al predetto appellante a mesi 8 di reclusione; revocava le statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata; confermava nel resto.

3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Bergamo il G. proponeva ricorso per cassazione a mezzo del suo difensore e concludeva chiedendo di volerla annullare.

Il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per i seguenti motivi: a) violazione dell’art. 606, lett. e), c.p.p., per mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione conseguente alla mancata o comunque non corretta valutazione delle relazioni redatte dai consulenti di parte prof. G. R. e ing. G. T., acquisite nel corso del giudizio di primo grado, nonché delle deposizioni rese nello stesso grado dai testi P., V., L., G., R., B. e A..

Secondo la difesa del ricorrente il giudice di appello avrebbe effettuato un esame superficiale degli elementi probatori.

In particolare non avrebbe valutato le conclusioni a cui era pervenuto il consulente della difesa, ing. G. T., il quale aveva riportato nel suo elaborato le risultanze delle verifiche ambientali eseguite nel reparto “massa porosa” dello stabilimento S. di Osio Sopra, verifiche che indicavano nei periodi di riferimento concentrazioni di amianto ben inferiori al valore limite ponderato (TLV) dell’ACGHI dell’epoca di 2 fibre/cc. Pertanto, secondo la tesi difensiva, la Corte di appello, era giunta ad affermare la responsabilità del G., direttore dello stabilimento S. solo dal 1978, in ordine al reato contestatogli, disattendendo le emergenze processuali di cui sopra e senza disporre una perizia, che pure era stata chiesta, nel corso dell’udienza del 27.10.2009, sia dal pubblico ministero che dai difensori delle parti civili. Ad avviso del ricorrente, dunque, non sussisterebbe il nesso di causalità tra il decesso del signor R. e l’esposizione all’amianto.

Inoltre, la Corte territoriale aveva affermato che, essendo stato il R. affetto sia da asbestosi che da silicosi, non poteva dubitarsi che il decesso per carcinoma polmonare fosse conseguenza della esposizione all’amianto presso lo stabilimento S.; tuttavia, osservava la difesa del G., la Corte territoriale aveva omesso totalmente di considerare le valutazioni del consulente tecnico, prof. G. R., il quale aveva rilevato che un ruolo importante nella genesi della forma neoplastica polmonare che aveva portato a morte il R., avevano avuto sia il fumo di sigaretta, sia la circostanza che egli aveva lavorato per quattro anni come scalpellino in fonderia, luogo in cui era ben presente il rischio di esposizione ad amianto.

E ancora, sempre secondo la difesa del ricorrente, la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che l’operaio A. R. non lavorasse in una zona distante nel reparto rispetto al punto in cui si lavorava l’amianto, avendo considerato che tutti i dipendenti passavano nei pressi della miscelazione anche se adibiti a mansioni diverse e che la miscelazione della massa porosa e l’acetonamento delle bombole avvenivano in un unico reparto. E però, secondo la tesi difensiva, i giudici di appello erano pervenuti a tali conclusioni disattendendo o comunque non valutando adeguatamente le dichiarazioni testimoniali di P., V., L., G., R., B. e A.. Il reparto di acetonamento, infatti, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, si sarebbe trovato, rispetto al luogo in cui erano collocati i miscelatori, nella stessa posizione indicata dalla piantina prodotta dalla difesa del G., quindi molto lontano dai miscelatori, dai quali era separato da uno spazio aperto compreso tra due pareti, b) Violazione dell’art. 606, lett. b), c.p.p., per inosservanza e/o erronea applicazione degli articoli 589 e 40, c.p.p.

Osservava sul punto la difesa del ricorrente che sulla base delle sopra indicate argomentazioni e, in particolare, sulla base delle considerazioni medico legale espresse dal prof. R., consulente tecnico della difesa, la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere che la forma neoplastica polmonare che aveva colpito il sig. A. R. aveva un’origine non professionale e che pertanto non sussisteva il nesso di causalità tra le prestazioni lavorative espletate dal sig. A. R. e l’insorgenza delle patologie sopra indicate. Il ricorso è fondato.

4. Al fine di meglio comprendere le ragioni della decisione occorre evidenziare che nell’ambito delle malattie determinate dall’esposizione all’amianto le vittime sono colpite da affezioni determinate dalla contaminazione con la sostanza e che la condotta attribuibile ai responsabili dell’azienda è, nel suo nucleo significativo attiva; e ciò in quanto l’esposizione all’agente lesivo in modo improprio è frutto di una determinazione di tipo organizzativo che ha evidentemente un rilievo condizionante, giacché se il lavoratore non fosse stato addetto a quella particolare lavorazione l’evento non si sarebbe verificato (cfr. sul punto : Cass. pen., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini e altri). Ovviamente, da questa premessa consegue che per ritenere la sussistenza del nesso causale è necessario, anzitutto, dimostrare che la patologia sia stata determinata dall’esposizione alla sostanza nociva.

4.1 Inoltre, si deve porre in rilievo che – sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte e in conformità a quanto affermato dalla comunità scientifica – alcune patologie, come il mesotelioma pleurico, sono monofattoriali: così che in tali ipotesi è facile dedurre che la malattia insorta è stata prodotta dall’esposizione all’amianto; mentre altre, come il carcinoma polmonare, sono decisamente multifattoriali: ed è, pertanto, assai più difficile dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato dall’amianto e non dal fumo o dall’esposizione ad altre sostanze carcinogenetiche (cfr. Cass. pen., sez. IV, 21 dicembre 2012, n.11197, Chino e altri).

5. Ciò premesso, si osserva che la sentenza impugnata ha ritenuto la sussistenza del nesso di causalità tra la prestazione lavorativa svolta dal R. e l’evento morte dello stesso sulla base delle seguenti argomentazioni:

a) i livelli di polveri di amianto nell’ambiente, altissimi negli anni 77 e 78, mai, neppure successivamente, sono scesi in maniera tale da potersi parlare di innocuità;

b) il R. aveva contratto sia l’asbestosi che la silicosi e ciò veniva considerato sicuro indice di esposizione ad amianto;

c) mai in precedenza era stato esposto a inalazione di asbesto in altri ambienti di lavoro;

d) nessun fondamento avevano le argomentazioni difensive secondo cui doveva escludersi la responsabilità dell’imputato nel determinismo causale dell’evento-morte, dal momento che il R. prestava servizio in una zona distante dal luogo in cui si lavorava manualmente l’asbesto:

e) era risultato certo che tutti i dipendenti passavano, senza alcuna protezione individuale né informazione adeguata, nei pressi della miscelazione anche se adibiti a mansioni diverse;

f) i dipendenti della S., già in servizio nei primi anni di lavoro del R., avevano dichiarato che la miscelazione della massa porosa e l’acetonamento delle bombole avvenivano in un unico reparto;

g) le mansioni lavorative erano intercambiabili;

h) il valore ponderato (TLV) non costituiva un limite al di sotto del quale doveva escludersi la cancerogenicità dell’amianto, ma solo il livello espositivo per cui è stato dimostrato statisticamente il raddoppio delle possibilità di contrarre il tumore;

i) non c’erano fattori causali alternativi, dal momento che il R. non era fumatore e non poteva costituire un fattore di rischio la sua pregressa e circoscritta nel tempo attività di scalpellino in una fonderia in cui mai ci sarebbe stata esposizione all’amianto.

6. E però, come meglio sarà chiarito tra breve, così motivando i giudici della Corte territoriale sono incorsi nel vizio previsto dall’articolo 606, comma 1, lettera e), c.p.p.: è ciò in quanto l’accertamento in punto di fatto non è stato adeguatamente argomentato, atteso che non analizza compiutamente le emergenze probatorie e le prospettazioni difensive.

E in vero, detti giudici, condividendo la motivazione della sentenza di primo grado che aveva messo in luce “l’intensità dell’esposizione all’agente patogeno”, hanno evidenziato l’estrema polverosità dell’ambiente di lavoro (confronta lettera a] su indicata), senza però adeguatamente valutare la relazione del consulente tecnico della difesa, ing. T., il quale aveva invece sottolineato come in tutti i rilievi, tranne il primo del 1974 effettuato dall’Istituto di medicina del lavoro dell’Università di Pavia, i valori misurati erano sempre risultati ampiamente inferiori ai valori di TLV dell’epoca.

6.1. La Corte territoriale inoltre ha ritenuto che non rispondesse al vero che il R. prestava servizio in una zona distante nel reparto rispetto al punto in cui si lavorava l’asbesto e che la miscelazione della massa porosa e l’acetonamento delle bombole sarebbero avvenute in un unico reparto (confronta lettere d], e] ed f] su indicate): tuttavia a tali conclusioni i giudici di merito sono pervenuti senza valutare adeguatamente le dichiarazioni dei testimoni della difesa su indicati (cfr. §3.), secondo i quali il reparto di acetonamento, presso il quale lavorava il R., contrariamente a quanto sostenuto dai giudici della Corte di appello, si sarebbe trovato, rispetto al luogo in cui erano collocati i miscelatori, proprio nella posizione indicata nella piantina prodotta dalla difesa dell’imputato, e perciò molto lontano dai miscelatori, dai quali era separato da uno spazio aperto compreso tra due pareti.

Ore, le su esposte carenze della motivazione devono essere colmate, se si vuole raggiungere la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, in ordine alla esposizione all’amianto da parte del R., che è la prima necessaria condizione perché possa essere attribuita al suo datore di lavoro la responsabilità dell’evento morte di quell’operaio.

7. Inoltre, sempre a proposito della sussistenza del nesso di causalità tra il decesso del R. e la sua esposizione alle polveri di amianto, la Corte territoriale ha affermato che avendo il R. manifestato le patologie dell’asbestosi e della silicosi, non potrebbe dubitarsi che egli sia stato esposto nella fabbrica all’asbesto, in misura tale da far ritenere che il decesso per carcinoma polmonare sia conseguenza di tale esposizione, atteso che non vi erano fattori causali alternativi, non essendo il R. fumatore e non essendo stato esposto ad inalazione di polveri di amianto in altri ambienti di lavoro (confronta lettere b]., e] e i] su indicate) .

7.1. I giudici della Corte territoriale sono, però, giunti a tali conclusioni senza adeguatamente valutare la relazione del consulente della difesa prof R., specialista in medicina del lavoro e in malattie dell’apparato respiratorio, secondo cui il fumo di sigaretta avrebbe giocato un ruolo importante nella genesi del carcinoma polmonare destro (patologia multifattoriale) che ha portato a morte il R.; e in vero, secondo quanto affermato dal suddetto consulente, il fatto che il lavoratore fosse fumatore, contrariamente a quanto ritenuto nel provvedimento impugnato, sarebbe dimostrato dalla circostanza che lo stesso era affetto da bronchite cronica ostruttiva, e cioè da una malattia tipica di chi ha il vizio del
fumo.

7.2. Parimenti la sentenza impugnata non ha confutato adeguatamente le ulteriori argomentazioni del prof. R., il quale aveva evidenziato che il R. aveva lavorato per quattro anni come scalpellino in fonderia, luogo in cui era ben presente il rischio di esposizione all’amianto, ed era affetto da silicosi, con placche pleuriche, segno clinico di esposizione “bassa” a quella sostanza nociva. Ebbene, anche tali carenze della motivazione devono essere colmate se si vuole escludere che la malattia da cui il R. venne colpito, sia stata cagionata da fatti diversi dall’esposizione all’amianto.

8, Per le ragioni su esposte la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Brescia per nuova valutazione in ordine alla causalità, alla luce delle osservazioni e dei principi sopra esposti.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata con Brescia per l’ulteriore corso.

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