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Responsabilità del datore per infortunio sul lavoro in mancanza di copertura assicurativa

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 febbraio 2013, n. 2942

O. G. – dipendente della C.F. s.p.a. con mansioni di operaio manutentore – a seguito di infortunio sul lavoro occorsogli in data 27 febbraio 1993 nello stabilimento di Langhirano conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Parma in funzione di giudice del lavoro la predetta società chiedendo il risarcimento del danno biologico e morale subito. Nel costituirsi la C.F., oltre a resistere alla domanda, chiamava in causa, a seguito di autorizzazione del giudice, la M. s.p.a. presso la quale era assicurata per essere garantita ai sensi dell’art. 1917 c.c. La compagnia assicuratrice si costituiva eccependo la inoperatività della polizza essendo la garanzia riferita ai danni previsti dagli artt. 10 e 11 del DPR n. 1125/1965 (ndr artt. 10 e 11 del DPR n. 1124/1965).

L’adito giudice, dichiarata la civile responsabilità della C.F. s.p.a. per il predetto infortunio sul lavoro, la condannava e, in accoglimento della domanda di manleva, per essa la M. s.p.a. al risarcimento del danno in favore dell’O. quantificato in euro 36.385,00 per danno biologico da invalidità permanente del 18%, euro 4.125,00 per invalidità temporanea – totale e parziale – e nella misura della metà del danno biologico per il danno morale.

Avverso tale decisione proponevano autonomi appelli la M. s.p.a. e la C.F. s.p.a. (quest’ultima anche appello incidentale) decisi, previa riunione, dalla Corte di appello di Bologna con sentenza del 12 marzo 2009 che rigettava l’appello incidentale proposto dalla C.F. s.p.a e, accogliendo il gravame della M., in parziale riforma dell’impugnata decisione, rigettava la domanda di manleva proposta dalla C.F. s.p.a. condannando quest’ultima alla restituzione in favore della detta compagnia assicuratrice della somma di euro 145.080,52 oltre interessi dalla data del pagamento al saldo.

In sintesi, la Corte, riguardo all’appello incidentale della C.F. s.p.a. aveva ritenuto: a) che la responsabilità della azienda per il verificarsi dell’infortunio sul lavoro de quo era stata affermata correttamente dal primo giudice non sulla scorta del giudicato formatosi nel giudizio penale – che aveva visto il preposto alla sicurezza dello stabilimento di Langhirano e direttore dello stesso condannato in primo grado per il delitto di lesioni personali colpose gravi aggravato dalla violazione delle norme di cui agli artt. 4 e 19 del DPR n. 547/1955 in danno dell’O. reato, poi, dichiarato estinto per prescrizione dalla Corte di Appello territoriale con sentenza divenuta definitiva – ma sulla base di una autonoma valutazione delle risultanze del procedimento penale e di quanto era emerso dalla attività istruttoria specificamente espletata nel processo civile; b) che la responsabilità della società trovava fondamento nel non aver previsto che una operazione pericolosa quale quella compiuta dall’O. fosse eseguita con uno strumento (scala a pioli) non idoneo a consentire al lavoratore di operare in condizioni di sicurezza e, quindi, nel non aver predisposto quelle misure atte a prevenire rischi di infortuni anche riconducibili ad imprudenza, imperizia e negligenza del lavoratore la cui condotta poteva comportare l’esonero totale da responsabilità per il datore di lavoro solo ove avesse presentato i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, caratteri questi ultimi che nel caso in esame non ricorrevano nel comportamento tenuto dall’O.; e, comunque, la società non aveva provato di avere impartito al dipendente una adeguata formazione sia sulle operazioni di manutenzione sia in merito al controllo ed alla vigilanza sul rispetto delle procedure aziendali di sicurezza.

In merito all’appello della M. la Corte riteneva che il richiamo esplicito agli art. 10 e 11 DPR n. 1124/1965 – in difetto di una espressa manifestazione di volontà delle parti intesa ad estendere il rischio coperto dalla polizza anche al danno biologico – comportava che il rischio assicurato non potesse che essere limitato alle prestazioni rientranti nell’ambito delle predette norme.

Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso la C.F. s.p.a. affidato a cinque motivi.

Resistono con controricorso la M. s.p.a. e l’O. il quale propone ricorso incidentale condizionato all’accoglimento del ricorso principale affidato a tre motivi cui resiste con controricorso la C.F. s.p.a.. La C.F. s.p.a. e la M. s.p.a. hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

Preliminarmente i ricorsi vanno riuniti perché proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

Sempre “in limine” si rileva la infondatezza della eccezione di inammissibilità del controricorso e contestuale ricorso incidentale condizionato di O. G. per nullità della procura “ad litem” sollevata dalla C. F. s.p.a.. Ed infatti la procura apposta a margine dell’atto contenente il detto controricorso ed il ricorso incidentale non può che essere successiva alla sentenza impugnata (cfr. per tutte da ultimo Cass. n. 5554 del 09/03/2011).

Passando, quindi, all’esame del ricorso principale, con il primo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 1 ° co. nn. 3 e 4).

Si rileva che la M. né in sede di appello principale né in quello incidentale aveva chiesto la condanna della F. alla restituzione di quanto eventualmente pagato in conseguenza della sentenza del Tribunale di Parma ragion per cui la Corte di appello era incorsa nei vizio di ultrapetizione. Viene formulato quesito di diritto. Il motivo è parzialmente fondato.

Dall’esame diretto degli atti del giudizio di merito, potere riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo” (cfr. Cass. 10/11/2011 n. 23420; 14/01/2010 n. 488; 22/07/2009 n. 17109; Cass., nn. 11755/2004, 254/2006, 409/2006) emerge che nel corso del giudizio di secondo grado, a seguito del pagamento all’O. della somma di euro 145.080,52 in esecuzione dell’impugnata sentenza, la M. ebbe ad integrare le conclusioni originariamente formulate – di rigetto della domanda di manleva – chiedendo anche la condanna della F. alla restituzione di detta somma. E’ di tutta evidenza che tale domanda non poteva essere proposta se non dopo il detto pagamento. Occorre a questo punto precisare che la Milano Assicurazione ha chiesto la condanna alla restituzione solo della predetta somma e non anche degli interessi legali sulla stessa. Orbene, con riferimento a quest’ultimo punto vale ricordare che gli interessi, sia quelli moratori che quelli corrispettivi o compensativi, possono essere attribuiti soltanto se la parte ne abbia fatto espressa richiesta, e non possono essere liquidati di ufficio, come nella ipotesi di credito di valore. Infatti,quando il credito è di valore, gli interessi, mirando a scongiurare il pregiudizio che deriva al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente monetario del danno, costituiscono una componente del danno stesso e nascono dal medesimo fatto generatore dell’obbligazione risarcitoria, contemporaneamente e inscindibilmente; in tutti gli altri casi, invece, gli interessi, siano essi moratori, corrispettivi o compensativi, avendo un fondamento autonomo rispetto a quello dell’obbligazione pecuniaria, possono essere attribuiti solo su espressa domanda dell’avente diritto (Cass. sent. n. 877/1999; Cass. 12 ottobre 1979 n. 5333; Cass. 30 luglio 1983 n. 5242; Cass. 28 giugno 1989 n. 3154). Nel caso in esame, essendo il credito della M. di valuta in quanto avente ad oggetto una determinata somma di denaro, gli interessi avrebbero dovuto essere espressamente richiesti e non potevano essere riconosciuti in mancanza di una specifica domanda in tal senso.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. in relazione alla polizza assicurativa n. 503.705 operante dal 31 dicembre 1988 con particolare riferimento alla clausola 2.1. lettera B. (secondo cui “la Società si obbliga a tenere indenne l’assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare (capitale, interessi e spese) quale civilmente responsabile ai sensi del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10 e 11 per gli infortuni sofferti dai prestatori di lavoro da lui dipendenti”), nonché omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, co. 1° nn. 3 e 5 c.p.c.).

Si assume che la Corte di merito, nel ritenere la non operatività della garanzia assicurativa in riferimento alle somme dovute dall’assicurato per danno biologico e morale, aveva violato i principi di ermeneutica contrattuale, in particolare quello che stabilisce che nel ricercare la comune volontà delle parti occorre non limitarsi al senso letterale delle parole, ma deve aversi riguardo anche al comportamento complessivo tenuto dalle parti anche posteriormente alla conclusione del contratto.

Viene formulato quesito di diritto e sintesi del motivo relativo al denunciato vizio di motivazione.

Il motivo è infondato.

Osserva il Collegio che la motivazione dell’impugnata sentenza sul punto è ampia ed esaustiva ed ha interpretato la clausola contrattuale in questione secondo il suo contenuto letterale che, proprio perché chiaro e non equivoco, non consentiva alcuna ermeneusi di segno diverso (Cass. 4 maggio 2005 n. 9284). Né detta clausola risulta essere contraddetta o ampliata da altra disposizione contrattuale, peraltro neppure indicata, da cui poter ricavare una diversa volontà delle parti.

Al riguardo, vale ricordare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione del contratto, concretandosi nell’accertamento della volontà dei contraenti, si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo per il caso di insufficienza o contraddittorietà della motivazione, tale da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione, o per violazione di regole ermeneutiche, con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca soltanto nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto vagliati dal predetto giudice di merito (tra le molte, Cass. n. 5507 del 18/03/2004 ex plurimis Cass. n. 1632 marzo 1996;). Va, inoltre, ricordato che in tema di interpretazione di clausole dello stesso tenore di quella qui in esame la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte ha avuto modo di chiarire che, secondo la disciplina di cui al d.P.R. n. 1124 del 1965, applicabile per il periodo antecedente all’entrata in vigore del decreto legislativo 23 febbraio 2000 n, 38 (che, all’art. 13, ha inserito il danno biologico nella copertura assicurativa pubblica), l’indennizzo previsto in caso di infortunio sul lavoro si riferisce esclusivamente alla riduzione della capacità lavorativa e, anche in base all’interpretazione della Corte costituzionale (sentenze n. 319 del 1981, n. 87 e 356 del 1991), non comprende una quota volta a risarcire il danno biologico, atteso che la configurabilità concettuale della duplice conseguenza (patrimoniale e non patrimoniale) del danno alla persona non significa che il diritto positivo prevedesse un “danno biologico previdenziale patrimoniale”.

Ne consegue che la richiesta di indennizzo del danno biologico e morale, quali voci non ricomprese nell’assicurazione obbligatoria ma eventualmente risarcibile per il lavoratore infortunato, porta dette voci complementari fuori dal sistema risarcitorio ex art. 10 e 11 t.u. e, quindi, per quanto qui interessa, fuori dell’ambito di operatività della polizza che fa riferimento ad una responsabilità civile su questi ultimi espressamente modellata, in luogo di quella codicistica ex art. 2043 c.c. (tra le più recenti: Cass, n. 25860 del 21/12/2010, Cass. n. 22608 del 26 ottobre 2009; Cass. n. 28834 del 5 dicembre 2008, conformi a Cass. n. 5507 del 18/03/2004; Cass. n. 11146 del 11/06/2004).

E’ stato anche da questa Corte, a più riprese, precisato che il richiamo, nella clausola contrattuale, degli artt. 10 ed 11 citati, non può essere considerato alla stregua di un “rinvio formale”, che tenga conto delle diverse interpretazioni di tali norme succedutesi nel tempo, atteso che nel caso di polizza assicurativa, la copertura garantita non può essere variata nel corso del rapporto, a seconda delle mutevoli interpretazioni giurisprudenziali o dottrinali (Cass., 22.6.2011 n.; 13681; Cass. 5.10.2007 n. 20890; Cass., 10.3.2004 n. 4920; Cass., 29.9.1998 n. 9730).

Con il terzo motivo viene denunciata omessa e/o insufficiente motivazione in ordine alla valutazione dei fatti sulla scorta degli accertamenti compiuti in sede penale (art. 360 co.1° n. 5 c.p.c.) nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in ordine alla valutazione delle prove acquisite (art. 360 co 1° n. 3 cpc).

In particolare si evidenzia che la Corte di merito, dopo aver rilevato che non era condivisibile l’affermazione contenuta nella decisione del tribunale in ordine alla certezza della responsabilità del direttore dello stabilimento di Langhirano per effetto della declaratoria di non doversi procedere per estinzione del reato per prescrizione, poi, contraddittoriamente, aveva affermato che correttamente il primo giudice aveva proceduto ad un autonomo accertamento della responsabilità civile della C.F. a seguito dell’espletamento di una specifica attività istruttoria ed anche sulla base delle acquisizioni ottenute in sede penale. Inoltre, non potendosi riconoscere alcuna efficacia extra penale alle sentenze di non doversi procedere per essere il reato estinto per prescrizione, era del tutto errato l’aver “tollerato” da parte della Corte di appello che le prove raccolte nel procedimento penale potessero essere poste a fondamento della decisione di primo grado.

Viene, altresì, evidenziata la violazione del disposto dell’art. 116 c.p.c. consistita in una errata valutazione delle prove testimoniali assunte in sede civile. Il motivo è inammissibile oltre che infondato.

In primo luogo va rilevato che nessuna contraddizione è individuabile nel ragionamento seguito dalla Corte di merito in quanto l’affermazione secondo la quale dalla sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato per prescrizione non poteva derivare la certezza della responsabilità del direttore dello stabilimento di Langhirano non è in contrasto logico con l’aver valutato anche gli accertamenti compiuti in sede penale unitamente agli elementi emersi dalla istruttoria svolta in sede civile. Si tratta, infatti, di un’operazione consentita per costante giurisprudenza di questa Corte che ha, in varie occasioni, affermato che il giudice civile (a differenza di quello penale) può trarre argomenti di prova da tutti gli elementi in suo possesso, compresa la sentenza di patteggiamento e gli altri documenti che provengano dal procedimento penale. Nel giudizio civile d’altra parte, potevano essere utilizzate come indizi anche le dichiarazioni rese, in sede penale, nel corso delle indagini preliminari, ancorché non confermate in sede dibattimentale; come ogni altro genere di indizi, debbono, però, essere gravi, precise e concordanti. (Cass Sentenza n. 132 del 08/01/2008). Più specificamente è stato anche detto che il giudice civile, può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ancorché con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile; a tal fine, egli non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del procedimento penale e ad esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficiente le risultanze della sola sentenza (Cass., n. 22200 del 29/10/2010). Il motivo, poi, finisce per sollecitare una rivalutazione del merito della controversia non consentita in questa sede e la violazione di legge viene dedotta mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa la cui censura è ammissibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione ma non sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di legge.

La corte di merito, nel caso in esame, ha valutato in modo analitico e senza alcuna contraddizione le dichiarazioni rese dai testi escussi innanzi al tribunale e tenendo conto anche di quelle raccolte nel procedimento penale sottoponendole ad un vaglio critico condotto in modo rigorosamente logico. In effetti quanto argomentato nel motivo in esame integra un dissenso dalle conclusioni del giudice di merito e sollecita una richiesta di controllo sulla motivazione che si risolverebbe in una inammissibile duplicazione de) giudizio di merito (cfr. Cass. n. 6288 del 18/03/2011; Cass. 10657/2010, Cass. 9908/2010, Cass. 27162/2009, Cass. 13157/2009, Cass. 6694/2009, Cass. 18885/2008, Cass. 6064/2008).

Con il quarto motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2087 e 1227 c.c. in relazione all’art. 116 c.p.c. con riferimento alla esclusione della responsabilità totale o, quantomeno, concorsuale di G. O. nella causazione dell’infortunio occorsogli il 23 febbraio 1993 (art. 360 co 1° n. 3 c.p.c.). In sintesi, si lamenta che la Corte di merito non avrebbe tenuto conto di quanto emerso in sede di istruttoria e cioè che la C.F. aveva adottato ogni utile precauzione volta a garantire la salute del lavoratore e che l’infortunio si era verificato solo per il comportamento imprudente e negligente del lavoratore. Viene formulato quesito di diritto. Il motivo è infondato oltre che inammissibile.

In tema di infortuni su lavoro questa Corte ha ripetutamente affermato che, per quanto l’art. 2087 c.c., non configuri una ipotesi di responsabilità oggettiva, ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro, al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, incombe l’onere di provare l’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale fra questi due elementi; quando il lavoratore abbia provato tali circostanze, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (cfr. Cass. n. 16881/2006, n. 7328/2004, n. 12467/2003 e numerose altre conformi). È stato altresì precisato che il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del datore di lavoro da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità e della imprevedibilità rispetto al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come cause esclusiva dell’evento (cfr. tra le tante cfr, Cass n. 3786 del 17.2.2009; Cass. n. 9689 del 23 aprile 2009; Cass. n. 19559/2006, n. 5493/2006, n. 4980/2006).

La Corte ha fatto corretta applicazione di detti principi rilevando che la responsabilità della società trovava fondamento nel non aver previsto che una operazione pericolosa quale quella compiuta dall’O. fosse eseguita con uno strumento (scala a pioli) non idoneo a consentire al lavoratore di operare in condizioni di sicurezza (in quanto il pavimento sul quale poggiava era, per espressa ammissione della società, scivoloso) e, quindi, nel non aver predisposto quelle misure atte a prevenire rischi di infortuni anche riconducibili ad imprudenza, imperizia e negligenza del lavoratore. Ha, quindi, precisato: che la condotta tenuta dal lavoratore non aveva presentato i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento con esonero totale da responsabilità per il datore di lavoro; che, comunque, la società non aveva provato di avere impartito al dipendente una adeguata formazione sia sulle operazioni di manutenzione sia in merito al controllo ed alla vigilanza sul rispetto delle procedure aziendali di sicurezza.

Il motivo è, inoltre, inammissibile in quella parte in cui investe il merito e finisce con il sovrapporre una propria opinione a quella espressa dalla Corte di merito che è giunta all’affermazione della responsabilità della società sulla scorta di un accurato vaglio di tutte le risultanze istruttorie seguendo un iter motivazionale rispetto al quale non sono state evidenziate lacune o contraddizioni limitandosi il motivo a prospettare una difforme lettura del materiale probatorio rispetto a quella operata dal giudice di secondo grado.

Con il quinto ed ultimo motivo si denuncia omessa pronuncia su un motivo di gravame (punto n. 3 dell’atto di appello della F.) con riferimento alla dedotta non indennizzabilità da parte dell’lNAIL del danno biologico in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 10 e 66 del DPR n. 1124 del 30 giugno 1965, nonché nullità della sentenza e del procedimento ex art. 360 co.1″ n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 12 cpc.

In particolare si assume che la Corte di merito non avrebbe esaminato il motivo di gravame in cui si deduceva la infondatezza della domanda dell’O. non essendo indennizzabile il danno biologico da lui richiesto ai sensi del combinato disposto degli artt. 10 e 66 del DPR n. 1124/1965 norme queste in base alle quali la F. doveva andare esonerata dalla responsabilità civile per l’infortunio in questione.

Il motivo è infondato oltre inconferente.

La Corte nel ritenere fondata la domanda del lavoratore ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha individuato in questa norma il fondamento della responsabilità del datore di lavoro e non certo in quella di cui agli art. 10 e 11 del DPR n. 1124/1965.

Da quanto sin qui esposto il ricorso principale della C.F. s.p.a. può essere accorto parzialmente con riferimento al primo motivo e, per l’effetto, l’impugnata sentenza va cassata in relazione alla parte del motivo accolta e la Corte, decidendo nel merito, dichiara non dovuti gli interessi legali sulla somma di euro 145.080,52.

Il ricorso incidentale dell’O. risulta assorbito dal rigetto degli altri motivi del ricorso principale.

Le spese del presente giudizio cadono a carico della C.F. s.p.a. stante la sua prevalente soccombenza anche nei confronti della M. s.p.a., e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo in favore della M. s.p.a. e di O. G.,

 

P.Q.M.

 

Riunisce i ricorsi, rigetta i motivi da due a cinque del ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale; accoglie in parte il primo motivo del ricorso principale, cassa in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara non dovuti gli interessi legali sulla somma di euro 145.080,52, rigetta nel resto il motivo; condanna la C.F. s.p.a. al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in euro 40,00 per esborsi ed in euro 3.500,00 per compensi rispettivamente a favore di O. G. e della M. s.p.a

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