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La definizione di “mobbing” elaborata dalla giurisprudenza (Cass. S.U. n. 8438/04, n. 4774/06; C. Cost. n. 359/03), è riconducibile a “una serie di pratiche vessatorie, protratte nel tempo, poste in essere da uno o più soggetti per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro, con intenti di persecuzione e di emarginazione, e tali da concretizzare una lesione dell’integrità fisica e della personalità morale del dipendente. Elementi costitutivi della fattispecie sono: la ripetitività e frequenza delle azioni mobbizzanti, il loro protrarsi per un apprezzabile periodo dì tempo, e il loro collegamento con l’intento persecutorio da parte dell’autore. Non è pertanto sufficiente il compimento di un singolo atto datoriale (sia pure illegittimo), né rileva la sola oggettività lesiva della condotta, se non è dovuta alla specifica intenzione persecutoria.”
Tribunale di Salerno – Sentenza 9/3/12 n. 1110
– condanna i convenuti in solido alla refusione delle spese di lite, liquidate in complessivi € 2.300,00, oltre IVA e CAP come per legge, con attribuzione all’Avv. P. C.; – pone a carico dei convenuti in solido il compenso per il CTU, liquidato in complessivi € 250,00 oltre IVA e Cassa di previdenza in favore del Dr. D. G..
Fatto
Con ricorso depositato in data 15/5/08, la ricorrente, premesso di essere dipendente del Comune convenuto come agente di Polizia Municipale; di avere subito in varie occasioni e durante lo svolgimento dell’attività lavorativa atteggiamenti persecutori da parte del S.ten. M. F., tali da comportare isolamento sul lavoro e una continua oppressione; che le condotte poste in essere dal M. erano state inutilmente portate a conoscenza del Comune datore di lavoro e del Comandante dei VV.UU.; che le reiterate vessazioni ed aggressioni subite integravano la fattispecie del “mobbing”; non avendo avuto esito il preventivo tentativo di conciliazione; adiva il Giudice del Lavoro, chiedendo la condanna dei convenuti in solido al risarcimento del danno biologico, morale e alla vita di relazione, patrimoniale, con vittoria di spese.
Nel costituirsi in giudizio il Comune e il M. deducevano l’infondatezza della pretesa e ne chiedevano il rigetto. Malgrado la notifica, il convenuto M. non si costituiva in giudizio. Escussi i testimoni, veniva conferito incarico al CTU medico- legale. All’ultima udienza i difensori concludevano come in atti e il Giudice decideva con lettura contestuale del dispositivo e dei motivi di fatto e di diritto.
Diritto
Preliminarmente si rammenta che il “mobbing”, secondo la definizione elaborata dalla giurisprudenza, è una fattispecie costituita da una serie di pratiche vessatorie, protratte nel tempo, poste in essere da uno o più soggetti per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro, con intenti di persecuzione e di emarginazione, e tali da concretizzare una lesione dell’integrità fisica e della personalità morale del dipendente (Cass. S.U. n. 8438/04, n. 4774/06; C. Cost. n. 359/03).
Elementi costitutivi della fattispecie sono: la ripetitività e frequenza delle azioni mobbizzanti, il loro protrarsi per un apprezzabile periodo dì tempo, e il loro collegamento con l’intento persecutorio da parte dell’autore. Non è pertanto sufficiente il compimento di un singolo atto datoriale (sia pure illegittimo), né rileva la sola oggettività lesiva della condotta, se non è dovuta alla specifica intenzione persecutoria.
“Il termine mobbing designa, in campo etologico e sociologico, un fenomeno articolato consistente in una serie di atti e comportamenti vessatori, di tipo commissivo od omissivo – magari in sé leciti o da soli giuridicamente insignificanti, ma elementi rilevanti in una ottica complessiva -protratti nel tempo, posti in essere nel confronti di un lavoratore, destinatario e vittima, da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui egli è inserito o del suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione. Posto che, allo stato delle attuali esperienze, il fenomeno del mobbing provoca l’insorgere nel destinatario di disturbi eventualmente anche a sfondo psicotico, ovvero reazioni alle persecuzioni ed emarginazioni a carattere perfino illecito che possono condurre alle dimissioni o al licenziamento, un’ipotizzabile regolamentazione in materia può riguardare un triplice oggetto: la prevenzione e repressione dei comportamenti dei soggetti attivi del fenomeno, le misure di sostegno psicologico della vittima e, se del caso, le procedure di accesso alle necessarie terapie sanitarie, il regime delle condotte poste in essere per reazione dalla stessa vittima. Premesso che, in carenza di specifica normativa statale, la giurisprudenza prevalente riconduce le fattispecie di mobbing entro la previsione dell’art. 2087, c.c., concernente le misure che, a pena dì responsabilità, l’imprenditore deve adottare a tutela dell’integrità fisica e morale del prestatore, la materia riguardata dal fenomeno, valutato nella sua complessità anche alla luce degli atti normativi interni e comunitari, è riconducibile, sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, all’ordinamento civile di cui all’art. 117, comma 2, lett. I), Cost, nonché, comunque, all’esigenza di salvaguardia della, dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore, a mente degli artt. 2 e 3, Cost, mentre, per gli aspetti incidenti sulla salute fisio-psichica del lavoratore, rientra, ai sensi dell’art. 117, comma 3, nella tutela e sicurezza del lavoro ed in quella della salute, cui la prima tutela si collega” (Cass. pen. Sez. III n. 2427/02).
“Per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; e) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio” (Cass. sez. lav. n. 3785/09).
“Il “mobbing” è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi), la volontà che li sorregge (diretta alla persecuzione ed emarginazione del dipendente) e la conseguente lesione attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico” (Cass. sez. lav. n. 22858/08). “Va qualificata come mobbing ogni “ipotesi di comportamento materiale o di provvedimento (del datore di lavoro) che sia contraddistinto da finalità persecutorie o di discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa, indipendentemente della violazione (da parte del lavoratore) di specifici obblighi contrattuali” (Cass. sez. lav. n. 21028/08).
“Il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico, attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi) sorretti dalla volontà di perseguitare o emarginare il dipendente stesso, il suo specifico intento e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex art. 2103 ce.) ed il fondamento della sua illegittimità è costituito dall’obbligo datoriale ex art 2087 c.c. di adottare le misure.necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore” (Cass. sez. lav. n. 22858/08). 11 fenomeno del “mobbing” è stato ricondotto anche dalla dottrina alla violazione dell’obbligo di sicurezza imposto al datore di lavoro dall’art. 2078 cod. civ., e quindi implica una responsabilità di natura contrattuale.
Talora si è peraltro ritenuta concorrente anche la responsabilità extracontrattuale o aquiliana ex art. 2043 cod. civ., come pure la responsabilità del datore ex art. 2049 cod. civ. per la condotta illecita dei sottoposti e degli ausiliari (Cass. S.U. n. 8438/04, Cass.n. 12445/06).
Il danno che ne deriva è di tipo non patrimoniale, cioè – secondo la tripartizione esposta dalla S.C. nelle note sentenze n. 8827/03 e 8828/03 – può essere biologico, morale e relativo ad interessi costituzionalmente protetti.
Nel caso del “mobbing” il danno biologico consiste in effetti pregiudizievoli sullo stato di salute della vittima, e si concretizza in genere in patologie di tipo psichico e/o psicosomatico, spesso di natura depressiva.
Il danno morale si sostanzia invece nel turbamento dello stato d’animo e in sofferenze spirituali. Però, atteso il difetto di una espressa previsione di legge, nel caso del “mobbing” tale illecito non costituisce reato (Cass. V sez. pen. n. 33624/07).
La giurisprudenza ha comunque confermato il diritto al risarcimento di tale pregiudizio anche in materia di lavoro, laddove la condotta del datore assuma rilievo penale (Cass. sez. lav. n. 4129/02) e anche se il fatto non sia configuratale come reato (Cass. n. 8827/03).
Il risarcimento del danno morale inoltre non ha una funzione punitiva nei confronti del responsabile (Cass. sez. III n. 12767/98, n. 1633/00).
Il danno agli interessi costituzionalmente protetti, infine, consiste nel danno arrecato alla qualità della vita della vittima, mediante alterazione delle abitudini e degli assetti relazionali personali, familiari e sociali (ex multis: Cass. S.U. n. 6572/06).
Esso copre tutti i danni non patrimoniali che non rientrano nel danno strettamente biologico e morale, include in pratica quello che solitamente si definisce anche “danno esistenziale”, ed è ravvisabile anche in caso di “mobbing” (Cass. civ. sez. I n. 19354/05, sez. III n. 15022/05).
Il “danno esistenziale” dunque non è un ulteriore ed aggiuntiva categoria di danno autonomamente configurabile, atteso che la S.C. ha escluso la possibilità di una duplicazione e moltiplicazione delle voci di danno ipotizzabili ed ha posto in rilievo la necessità di procedere ad una valutazione complessiva e “personalizzata” del risarcimento (Cass. sez. Ili n. 9510/07, n. 11761/06).
La predetta tripartizione del danno non patrimoniale è stata peraltro ormai superata dalla più recente giurisprudenza di legittimità, che ha ricompreso in un’unica categoria tutti i danni non patrimoniali, qualunque siano la loro natura e le loro caratteristiche, escludendo una separata valutazione e liquidazione delle singole voci di danno, e negando la rilevanza dei danni c.d. bagatellari ai fini risarcitori (Cass. n. 26972/08).
Resta comunque onere di parte attrice dimostrare in giudizio non solo l’effettivo danno subito, di cui chiede il risarcimento, ma anche la condotta colposa ascrivibile al datore di lavoro ed il nesso causale concreto tra detta condotta e il danno.
Per affermare la responsabilità del datore di lavoro per mancato rispetto dell’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 cod. civ., è necessario infatti che l’evento dannoso sia riferibile a sua colpa (Cass. sez. lav. n. 1579/00).
Per ottenere il risarcimento la parte attrice deve pertanto fornire la prova dei suoi presupposti, non potendosi ravvisare il danno “in re ipsa”.
Tali principi sono stati anche di recente ribaditi dalle Sezioni Unite della Cassazione, che hanno aderito all’indirizzo più rigoroso manifestatosi nell’ambito della S.C., così componendo il contrasto sorto nella giurisprudenza.
Nel richiamare autorevoli precedenti anche dottrinali, la Corte ha invero riaffermato che spetta al lavoratore, che chieda il risarcimento del danno (anche alla vita di relazione, e anche biologico), dare la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale; e detta prova costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa.
Il danno, infatti, non costituisce conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo, per cui non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore di fornire la prova secondo la regola generale posta dall’art. 2697 cod. civ. (Cass. Sezioni Unite n. 6572/06; Cass. n. 10361/04, n. 16792/03, n. 8904/03, n. 2561/99, n. 7905/98). Nel ricollegare il risarcimento del danno alla responsabilità contrattuale del datore di lavoro (per violazione dell’art. 2103 cod. civ. in caso di danno alla professionalità e di dequalificazione, e per violazione dell’art. 2087 cod. civ. in caso di danno alla salute e di danno da “mobbing”), la Corte ha poi precisato che in entrambi i casi si versa in una situazione di inadempimento contrattuale, onde spetta al lavoratore provare una lesione aggiuntiva, e quindi autonoma, del diritto. E, poiché dalla condotta datoriale possono discendere una pluralità di conseguenze lesive per il dipendente, a carico di quest’ultimo sussiste uno specifico onere di allegazione, con l’indicazione di tutti gli elementi, modalità e peculiarità della situazione di fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno.
Ora, nel caso di specie, la ricorrente ha dato idonea prova nel processo del “mobbing”, del nesso causale e dei correlati danni. La documentazione allegata e le deposizioni testimoniali hanno infatti confermato che la lavoratrice tra il gennaio 2004 e il luglio 2005 è stata reiteratamente sottoposta a controlli esasperati nello svolgimento delle mansioni, ha subito ripetutamente da parte del convenuto M. contestazioni e richiami inerenti episodi di scarsa rilevanza o del tutto inesistenti, ed è stata verbalmente aggredita ed insultata dallo stesso M. davanti a terzi in occasione dello svolgimento della prestazione lavorativa. I comportamenti ostili e vessatori posti in essere dal M. nell’arco temporale di oltre un anno e mezzo – non riconducibili, atteso quanto emerso in giudizio, ad una mera divergenza di vedute, né ad una semplice incompatibilità caratteriale, ma intenzionalmente diretti ad emarginare e mortificare la ricorrente e consistenti anche in esplicite minacce – erano noti al datore di lavoro, e sono stati altresì invano più volte denunciati dalla ricorrente anche al Comandante M..
Addirittura si era creato nell’ambiente di lavoro un clima di tale tensione che vi erano, tra i colleghi di lavoro, due “fazioni”: quella formata da coloro che giustificavano il comportamento del M., e quella che invece difendeva la ricorrente.
Anche dagli atti prodotti in fascicolo si evince ulteriore riscontro circa la veridicità degli episodi esposti in ricorso. In particolare, i rapporti di servizio inviati al Comandante, nonché il carteggio relativo alla contestazione disciplinare mossa alla ricorrente per i fatti del 3/2/05, evidenziano la fondatezza delle doglianze della lavoratrice: i fatti da lei esposti a discolpa circa l’addebito disciplinare risultano infatti confermati dalle dichiarazioni rese al datore di lavoro da F. B., C. M. e F. I. (quest’ultimo responsabile della Centrale Operativa).
Inoltre, la segnalazione del M. in data 6/7/05 (relativa ad una condotta della ricorrente ritenuta non autorizzata e a pretesi problemi alla viabilità in Litoranea) risulta smentita chiaramente dalla relazione di I. dell’8/7/05 in cui si conferma invece l’esistenza dell’autorizzazione già data alla ricorrente e si esclude la sussistenza di problemi alla circolazione dei veicoli. In ordine alla responsabilità del datore di lavoro, si rammenta che “Il datore di lavoro è responsabile per il mobbing che i dipendenti pongono in essere nei confronti di un loro collega, se non ha vigilato o non ha fatto nulla per far cessare i soprusi” (Cass. sez. lav. n. 16148/07).
“Deve affermarsi la responsabilità del datore di lavoro per danno da mobbing allorché si accerti che un dipendente ha subito sul luogo di lavoro rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico a causa delle vessazione di altro dipendente ed il datore di lavoro non sia stato in grado di provare di aver adottato misure idonee a prevenire il dedotto evento dannoso ” (Cass. sez. lav. n. 12445/06).
“Ad escludere la responsabilità del datore in relazione al mobbing proveniente da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima non può bastare un mero, tardivo intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da costante vigilanza” (Cass. sez. lav. n. 22858/08). “La responsabilità del datore dì lavoro per mobbing sussiste anche ove, pur in assenza di un suo specifico intento lesivo, il comportamento materiale (nella specie protrattosi per sei mesi) sia posto in essere da altro dipendente, per la colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo; né può bastare ad escludere tale responsabilità – quando il mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima – un mero e tardivo intervento “pacificatore” che non sia seguito da concrete misure sanzionatone e di vigilanza” (Cass. sez. lav. n. 22858/08).
Nel caso dì specie, come dimostrato in giudizio, né il Comandante M., né il Comune datore di lavoro hanno adottato idonei provvedimenti di vigilanza o sanzionatori. Il Comandante, infatti, pur essendo stato informato della prolungata condotta persecutoria posta in essere dal M. nei confronti della ricorrente, si è limitato a cambiare temporaneamente i turni di servizio, in modo da evitare la compresenza delle parti durante l’orario di lavoro, ma, terminato detto breve periodo, non ha adottato alcun atto idoneo a impedire la prosecuzione della condotta mobbizzante né a tutelare la ricorrente.
Non risulta in effetti adottato nei confronti del responsabile nessun provvedimento disciplinare o di altro tipo, né adottata alcuna iniziativa realmente utile o efficace.
Sussiste quindi la responsabilità solidale dei convenuti per i danni subiti dalla ricorrente per effetto della condotta mobbizzante, consistenti in un serio e grave stato di disagio psicologico nella ricorrente, sfociato anche in danno alla salute psico-fisica.
In particolare, la documentazione prodotta attesta che sin dal 30/11/04 sono stati riscontrati “stato d’ansia e cardiopalmo”, “crisi d’ansia”, “impossibilità a riposare, tachicardia, dispnea” (v. certificati medici del 30/11/04, del 17/4/05 e del 5/7/05), con reiterata prescrizione di terapia farmacologica.
La lavoratrice è stata poi sottoposta a visita neuropsichiatria presso l’Unità Operativa di Salute Mentale della ASL Sa2, ove sono state diagnosticate “stato depressivo-ansioso, ansia, disturbi del sonno, tachicardia, inappetenza e calo dell’umore, calo poderale” (v. certificato ASL Sa2 dell’11/7/05, e cartella clinica U.O. Salute Mentale) con conseguente prescrizione di ulteriore terapia farmacologica.
Il CTU incaricato in giudizio, infine, ha confermato nella relazione scritta – le cui osservazioni e conclusioni qui si richiamano e si recepiscono – la sussistenza del nesso causale in rapporto alle patologie riscontrate (pregressa reazione da stress). Ha ravvisato un danno biologico consistente nella invalidità temporanea assoluta (n. 245 giorni) e nella invalidità temporanea parziale del 50% (n. 90 giorni).
Ha escluso invece il danno alla capacità lavorativa specifica. Risultano documentate inoltre le spese mediche per € 24,78. Ora, in ordine alla quantificazione del risarcimento del danno, la S.C. ha da sempre affermato la legittimità, ed anzi la necessità, di una valutazione equitativa, purché svincolata da parametri correlati al reddito e tesa piuttosto alla “personalizzazione” del risarcimento (Cass. nn. 8287/96, 4255/95, 10269/94, 2008/93, 12911/92).
La stessa Corte non ha del resto prefissato i criteri specifici ai quali i Giudici di merito devono uniformarsi, limitandosi invece a richiamare la necessità di una sufficiente e coerente motivazione circa il procedimento seguito per la quantificazione, e rammentando alcuni indici di riferimento utili (natura ed entità delle lesioni, età del soggetto leso, attività espletate, condizioni personali e familiari, ecc.) (Cass. nn. 10405/98, 2515/95, 8066/93).
I Giudici di merito hanno quindi utilizzato vari sistemi di calcolo, ispirandosi alcuni al “valore medio del punto di invalidità” ovvero al “triplo della pensione sociale”, di cui la stessa Corte di Cassazione ha tuttavia a volte escluso ed a volte confermato l’attendibilità, con conseguenti oscillazioni e contrastanti orientamenti.
E’ poi intervenuto il D.Lgs. 23/2/00, n. 38, che, nel disciplinare l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, in attesa di una definizione legislativa della materia, ha introdotto, sia pure “in via sperimentale” una precisa definizione di danno biologico, come “lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della persona” (art. 13, co. 1) dichiarandolo “risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato”, così recependo l’orientamento già manifestato dalle Supreme Corti. Lo stesso Decreto Legislativo (art. 13, co. 3) ha quindi demandato al Ministero del lavoro l’emanazione delle apposite tabelle per la liquidazione del danno biologico ai fini delle prestazioni INAIL; tabelle che sono state approvate con Decreto Ministeriale del 12/7/00.
Ora, ad avviso della scrivente, dette tabelle, pur riferendosi all’indennizzo di competenza dell’INAIL, possono tuttavia -per la loro valenza generale e per la loro applicabilità sull’intero territorio nazionale- essere considerate il parametro attualmente più attendibile per la valutazione equitativa del danno. Esse infatti indicano i valori del punto di invalidità in rapporto alle percentuali dei postumi, al sesso ed alla fascia di età del lavoratore al tempo dell’infortunio (Allegato 3 del citato D.M. 12/7/00, in pag. 53 in G.U. n. 119 del 25/7/00). Per la quantificazione del danno morale, che è comunque equitativa, può costituire un valido parametro di riferimento la frazione del danno biologico, tenendo conto peraltro che non va operato un calcolo puramente matematico, ma vanno sempre apportati gli opportuni correttivi, nell’ottica della “personalizzazione” del danno, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, per raggiungere un giusto equilibrio tra le varie voci di danno (Cass. sez. IlI n. 8828/03, n. 7379/03, n. 15103/02, n. 2677/98, n. 748/00, n. 10725/00, n. 134/98; Cass. sez. lav. n. 475/99).
Non va invece applicato il criterio del triplo della pensione sociale di cui all’art. 4 legge n. 39/77 (Cass. sez. Ili n. 12312/98). Neppure possono applicarsi le tabelle elaborate da alcuni uffici giudiziari per la liquidazione del danno biologico (come ad esempio le ed. “tabelle milanesi”), in quanto esse non rientrano nel novero delle nozioni di fatto di comune esperienza di cui all’art. 115, co. 2, c.p.c., né sono norme di diritto, appartenenti necessariamente alla conoscenza del Giudice (Cass. n. 5012/02, n. 14440/00).
Si rammenta che, per consolidato orientamento della S.C., deve in ogni caso evitarsi la duplicazione dei risarcimenti e deve evitarsi un risarcimento sproporzionato, in quanto il danno morale, rispetto al danno biologico, ha la più limitata funzione di ristoro della sofferenza contingente, cioè del patema d’animo subito dalla vittima del fatto lesivo (Cass. sez. Ili n. 14752/00). La lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. va guardata invero non come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno, bensì come mezzo per colmare le lacune nella tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta al “sistema bipolare” del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, quest’ultimo comprensivo del danno biologico, del danno morale soggettivo e dei pregiudizi diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto (Cass. sez. III n. 8827/03, n. 8828/03).
Va quindi esclusa una separata valutazione e liquidazione delle singole voci di danno, e non vanno risarciti i danni c.d. bagatellari (Cass. n. 26972/08).
Nel presente giudizio, pertanto, si ritiene equo quantificare il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dal mobbing in complessivi € 40.000,00, prendendo come base di calcolo la rendita annua INAIL per l’inabilità al 100% e al 50% in rapporto al numero di giorni rispettivamente riscontrati dal CTU (n. 245 e n. 90), e aggiungendo una ulteriore quota in ragione delle caratteristiche della fattispecie concreta.
Gli accessori, trattandosi dì liquidazione equitativa, spettano a decorrere dalla data della domanda giudiziale. Gli stessi vanno calcolati ai sensi dell’art. 429 cpc in quanto l’obbligazione relativa alla corresponsione del risarcimento del danno biologico è un’obbligazione di valore, sicché va quantificata in relazione al valore del bene perduto dal danneggiato rapportato al momento della decisione (Cass. sez. lav. n. 14930/00).
Le spese di lite seguono la soccombenza, unitamente al compenso per il CTU.
fonte: www.teleconsul.it
a cura di T. C. e S. M.