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I. B. adiva il giudice del lavoro chiedendo accertarsi, con le conseguenze di cui all’art. 18 St. Lav., la illegittimità del licenziamento per motivi disciplinari intimatogli con lettera del 9.2.1998 dalla datrice di lavoro C. S.p.A.. Il Tribunale accoglieva la domanda. La Corte di appello di Catania confermava la decisione. In esito a cassazione della sentenza di secondo grado il giudizio era riassunto dal C. S.p.A davanti alla Corte di appello di Caltanissetta la quale dichiarava la legittimità del licenziamento e condannava l’originario ricorrente alla restituzione in favore della società datrice della somma corrispondente alle retribuzioni globali di fatto spettanti dal giorno del licenziamento fino alla effettiva reintegra. I giudici del rinvio ritenevano preclusa la valutazione della condotta relativa all’episodio del 10.11.1997 (consistente nella mancata effettuazione di una operazione di richiamo tratta richiesta da un cliente) per non essere stata impugnata la statuizione con la quale la sentenza poi cassata aveva ritenuto l’addebito non sufficientemente dimostrato. Quanto alle residue condotte oggetto di contestazione rilevavano che: a) l’episodio del 20.11.1997, allorché il B., addetto alla cassa, aveva sostanzialmente rifiutato un’operazione richiesta da un cliente e prevista da un manuale portato a conoscenza dei dipendenti, si connotava per la sua particolare gravità in quanto tale operazione era da tempo in uso nella banca e prevista da un manuale diramato ai dipendenti già da alcuni mesi ; b) analogamente ritenevano quanto all’episodio del 26.11.1997 in relazione al quale era stato contestato al lavoratore di essersi allontanato dal posto di lavoro senza procedere alla chiusura della cassa. Nella valutazione della condotta i giudici del rinvio richiamavano le indicazioni della sentenza di cassazione secondo la quale la giusta causa di licenziamento di un cassiere di banca, affidatario di somme anche rilevanti, deve essere verificata con riguardo non solo all’interesse patrimoniale della datrice di lavoro, ma anche, sia pure indirettamente, alla potenziale lesione dell’interesse pubblico alla sana e prudente gestione del credito (artt., 5 comma 1° e 14, comma 2°, d. Igs n. 385 del 1993); nella stessa ottica la sentenza di cassazione aveva altresì precisato che il rigoroso rispetto delle regole di maneggio del denaro non poteva essere sostituito da non meglio specificate regole di buon senso, inidonee ad assicurare la conservazione del denaro della banca e dei clienti. Pervenivano quindi alla valutazione di particolare gravità della condotta addebitata configurando la stessa negazione del potere organizzativo e disciplinare della datrice di lavoro; c) in merito poi all’episodio del 27.11.1997, in relazione al quale era stato contestato al B. di avere abbandonato il posto di lavoro per recarsi al bar, incurante della presenza di ben quindici clienti, i giudici del rinvio hanno escluso rilevanza alla dedotta esistenza di una prassi che consentiva ai dipendenti di allontanarsi per la pausa caffè senza apposito permesso e osservato che la concreta situazione avrebbe richiesto da parte del lavoratore maggiore sollecitudine e diligenza. Hanno quindi ritenuto che le condotte addebitate rendevano la sanzione espulsiva proporzionata alla definitiva rottura del vincolo fiduciario; in accoglimento dell’appello in riassunzione della società hanno quindi dichiarato la legittimità del licenziamento e condannato il B. alla restituzione delle somme corrisposte dalla datrice di lavoro.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso affidato a quattro motivi I. B. Il C. spa ha depositato controricorso con contestuale ricorso cv incidentale subordinato, affidato ad un unico motivo concernente la statuizione di condanna alla restituzione . Il ricorrente principale ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia e, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli art. 416 cod. proc. civ. 2119, 2103 e 2106 cod. civ., nonché dell’art. 26 CCNL per i dipendenti aziende di credito. Afferma che la Corte territoriale, operando una forzatura del dictum della sentenza di cassazione, senza procedere, come richiesto, ad una ricostruzione complessiva dei fatti ed ad una nuova valutazione degli stessi, ha omesso di considerare tutti gli elementi presenti in ogni singola contestazione e, soprattutto, richiamato circostanze di fatto che non potevano trovare ingresso attesa la decadenza nella quale era incorsa la società resistente, per il tardivo deposito della memoria di costituzione di cui all’art. 416 cod. proc. civ. In particolare, ricordato il fatto pacifico che B. rivestiva le funzioni di rappresentante sindacale aziendale e che aveva promosso più di un giudizio per la tutela dei suoi diritti, rileva che il C., nella propria memoria di costituzione aveva fatto riferimento a precedenti vicende giudiziali tra le quali quella insorta tra il lavoratore e la incorporata Banca di Paterno, e osserva con riferimento a tale ultima vicenda che essa aveva comportato un apprezzamento estremamente negativo della personalità del lavoratore, destinato – in tesi – a influenzare anche la valutazione delle successive condotte in termini particolarmente sfavorevoli. Secondo il B. tale negativa valutazione non aveva più ragion d’essere atteso l’esito giudiziale della vicenda risultato a lui favorevole. Tanto premesso, con riferimento all’addebito consistente nella mancata effettuazione, in violazione delle disposizioni contenute nel manuale delle operazioni Portafoglio Italia, di un’operazione di presentazione effetti richiesta da un cliente, parte ricorrente assume che la Corte territoriale aveva omesso di considerare che non vi era prova della consegna al lavoratore del manuale operativo e della relativa illustrazione da parte della Banca. Richiama a tal fine le deposizioni del teste Prezzavento e del teste Pantaleo ,titolare dell’agenzia di C. e, a conferma delle difficoltà connesse alle operazioni previste, il medesimo Postel inviato dalla Direzione il giorno stesso dei fatti . Con esso si invitavano i dipendenti, onde evitare ” i palleggi di clientela da una postazione di cassa all’altra “a richiedere consulenza in caso dì difficoltà. Deduce che il giudice del rinvio nel richiamare la previsione collettiva secondo la quale” il personale ha il dovere di dare all’azienda nell’esplicazione della propria attività di lavoro una collaborazione attiva ed intensa , secondo le direttive dell’azienda stessa e le norme del presente contratto” aveva omesso di richiamare la ulteriore previsione contenuta nello stesso articolo secondo la quale” l’azienda deve far conoscere al lavoratore le procedure intime di lavoro che debbono essere eseguite per l’espletamento delle mansioni che il lavoratore stesso è chiamato ad esercitare”. Assume inoltre la violazione dell’art. 416 cod. proc. civ. per avere il giudice tenuto conto dei precedenti disciplinari risultanti dalla documentazione tardivamente depositata in primo grado dalla convenuta .
Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia e, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 2104 e 2106 cod. civ.. Ribadito che la Corte del rinvio non aveva rispettato il dictum della sentenza di cassazione, rileva che la stessa, con riferimento all’episodio del l’allontanamento del 26.11.1997, aveva omesso di motivare in ordine alla esistenza di una prassi aziendale, idonea, assume, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, ad esimere da responsabilità il lavoratore.
Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia e, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 2104 e 2106 cod. civ..
Deduce il travisamento dei fatti in relazione all’episodio dell’allontanamento del B. per la pausa caffè; in particolare censura la omessa considerazione della circostanza secondo la quale al momento dell’allontanamento operavano più casse per cui la breve assenza del B. non aveva sortito alcun effetto sui quindici clienti presenti determinando, al più, un leggero ritardo nelle operazioni. Richiama la esistenza di una prassi aziendale che consentiva ai dipendenti di allontanarsi per la pausa caffè senza richiedere permessi.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 389, 278 e 474 cod. proc. civ.. Premette parte ricorrente che il C. aveva chiesto, con il ricorso per riassunzione la restituzione della somma di € 31.148, 22, oltre interessi legali, somma che assumeva essere stata corrisposta fin dal 27.12.1998. Deduce quindi la erroneità della statuizione di restituzione sul rilievo che la condanna pronunciata dai giudici del rinvio esorbita dagli elementi propri della condanna generica regolata dall’art. 378 cod. proc. civ, ne sottolinea al contempo la inidoneità a costituire titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 cod. proc. civ.. Evidenzia inoltre che la parte motiva della sentenza relativa alla statuizione di condanna si esprime in termini dubitativi poiché fa riferimento alla “restituzione di un ammontare pari alle retribuzioni globali di fatto che il B. avrebbe dovuto percepire dalla data di licenziamento alla data di reintegra” e che tale incertezza permane anche nella parte dispositiva che condanna alla restituzione della somma corrispondente alle retribuzioni di fatto erogate. Tali espressioni dimostrerebbero, in sostanza, che i giudici di merito non avrebbero avuto certezza sul presupposto della statuizione di restituzione.
Parte controricorrente ha formulato un motivo di ricorso incidentale subordinato all’accoglimento del quarto motivo di ricorso, deducendo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 , cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per avere la Corte territoriale pronunziato “sostanzialmente” solo sull’an nonostante la originaria domanda fosse intesa anche alla liquidazione del quantum. Il ricorso principale è infondato conseguendone l’assorbimento anche del motivo di ricorso incidentale. Ed invero, quanto al primo motivo di ricorso principale si premette che la sentenza con la quale è stata cassata la decisione della Corte di appello di Catania (Cass. n. 21575 del 2008) ha ritenuto che sia l’addebito riferito all’episodio del 20 novembre 1997 e cioè il rifiuto di compiere un’operazione richiesta da un cliente, sia l’addebito riferito al successivo 26 novembre consistente nell’avere il lavoratore lasciato la cassa aperta ed i valori incustoditi con una eccedenza di £ 500.000 a causa di un’operazione non registrata, erano stati “incensurabilmente accertatati in fatto dalla Corte d’appello” (sentenza di cassazione, pag. 3). Con riferimento al primo di tali episodi la sentenza di cassazione ha precisato che esso era costituito “dal rifiuto, da parte del dipendente addetto alla cassa, di compiere un’operazione richiesta da un cliente e prevista da un ” manuale” vale a dire da disposizioni scritte, non illustrate ai dipendenti, ma non a loro ignote, anche perché specificate con comunicazione telematica del direttore di filiale; comunque era a disposizione del singolo lavoratore un servizio di informazione in caso di interpretazione dubbia” Tale accertamento in fatto, anche con riferimento al profilo della conoscenza del lavoratore della esistenza delle disposizioni aziendali che gli imponevano in caso di dubbio di rivolgersi al servizio informazione, non poteva quindi essere messo in discussione nella sentenza impugnata, stante i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio quali fissati dalla sentenza della Suprema Corte. Conviene a riguardo ricordare che la cassazione della decisione della Corte di appello di Catania, con riferimento ai due episodi sopra richiamati, ritenuti “incensurabilmente accertati”, è stata determinata dalla violazione di norme di diritto per non essere la valutazione di non proporzionalità del licenziamento, stata ancorata, a norme di legge, di contratto o a criteri di ragionevolezza. E’ solo con riferimento all’addebito consistente nell’allontanamento per la causa caffè, in relazione al quale i giudici di merito avevano escluso di avere raggiunto un positivo convincimento sulla sua sussistenza e sul relativo rilievo disciplinare, che la sentenza rescindente ha rilevato il vizio motivazionale con conseguente rimessione al giudice del rinvio dell’accertamento di fatto. Alla luce di quanto sopra osservato, ricordato che la sentenza di annullamento con rinvio vincola il giudice del rinvio al principio affermato e ai relativi presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla “regola” giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione adottata, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza poter estendere la propria indagine a questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità costituiscono il presupposto stesso della pronuncia di annullamento, formando oggetto di giudicato implicito interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza di cassazione, in contrasto col principio di intangibilità. (ex plurimis, Cass. n. 17353 del 2010), è da escludere la violazione del dictum della sentenza di cassazione con riguardo al profilo relativo alla materiale ricostruzione dei fatti oggetto di addebito, con riferimento agli episodi del 20 e del 26 novembre 1997. Il motivo va quindi respinto.
E’ altresì infondato il secondo motivo di ricorso principale. Come già rilevato, la sentenza di cassazione ha ritenuto “incensurabilmente accertato” l’illecito consistente nell’allontanamento dal posto di lavoro senza chiudere la cassa ed anzi, lasciando in sospeso un’operazione del valore di cinquecentomila lire con conseguente mancata tempestiva registrazione dei dati contabili per l’intera giornata e un fermo di dieci minuti per tutte le operazioni della mattina successiva. Con specifico riferimento alla dedotta esistenza di una prassi aziendale alla quale il B. sostiene di essersi attenuto nell’allontanarsi dalla postazione di lavoro, la sentenza rescindente così si è espressa: “Anche qui la Corte d’appello non nega l’illecito qual considera non grave poiché a quel comportamento era solito porre rimedio un altro funzionano della banca coadiuvato da un altro dipendente “sulla base di una regola non scritta ma dettata dal buon senso. Il collegio di merito ha errato ancora una volta in diritto poiché non ha considerato che la giusta causa di licenziamento di un cassiere di banca, affidatario di somme anche rilevanti, dev’essere apprezzata con riguardo non soltanto all’interesse patrimoniale della datrice di lavoro ma anche, sia pure indirettamente, alla potenziale lesione dell’interesse pubblico alla sana e prudente gestione del credito (cfr. D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 5, comma 1, e art. 14, comma 2, contenente il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia).
Né il rigoroso rispetto delle regole di maneggio del denaro può essere sostituito da non meglio specificate regole di buon senso, inidonee ad assicurare la conservazione del denaro della banca e dei clienti.
Anche questa violazione dell’art. 2119 cit. insieme alla sottovalutazione dei precedenti disciplinari a carico del lavoratore, porta alla cassazione della sentenza impugnata. I suddetti comportamenti significano, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello, negazione del potere organizzativo e disciplinare della datrice di lavoro, sia pure manifestata per fatti concludenti invece che in forma espressa. Né è vero che non risulti accertato l’elemento soggettivo dell’illecito poiché il fatto che il lavoratore si attenga consapevolmente a regole di cosiddetto buon senso invece che a quelle impartite dall’imprenditore dimostra un’accettazione dei conseguenti rischi economici a carico dell’impresa,idonea a qualificare la colpa come cosciente.” Alla luce di tali indicazioni, alle quali il giudice del rinvio era vincolato al fine della verifica della sussistenza della giusta causa e quindi del giudizio di proporzionalità, priva di rilievo risulta la deduzione del ricorrente in ordine alla esistenza ed alla efficacia scriminante della prassi aziendale invocata dal lavoratore. Il terzo motivo di ricorso principale è inammissibile in quanto tende a sollecitare un diverso apprezzamento di fatto precluso al giudice di legittimità. Ed invero la censura alla decisione impugnata di non avere tenuto conto, che al momento dell’allontanamento del B. per la pausa caffè, operavano più casse, non è decisivo perché la presenza di una pluralità di casse, delle quali non è detto se tutte in funzione, non esclude comunque che il venir meno di una cassa rallentava le operazioni delle altre sulle quali venivano dirottati i clienti in fila che comunque erano in numero cospicuo né incide sulla valutazione della negligenza della condotta del B. espressa nella sentenza di secondo grado. Il quarto motivo di ricorso principale è anch’esso inammissibile. La domanda di restituzione è stata formulata infatti dalla società e non dal B. di talché solo questa aveva interesse a far valere, in ipotesi, la non corrispondenza della statuizione resa rispetto a quanto richiesto, sotto i profili attinenti all’art. 378 ed all’art. 474 cod. proc. civ. richiamati da parte ricorrente. Quanto alle espressioni utilizzate in sentenza, dal complessivo contesto argomentativo, si evince che l’uso del tempo condizionale, seppure inappropriato, non è significativo di incertezza o di dubbio in ordine alla sussistenza dei presupposti per la restituzione. La rilevata inammissibilità del quarto motivo determina l’assorbimento del motivo di ricorso incidentale condizionato.
Le spese del giudizio sono liquidate secondo soccombenza.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale. Condanna parte ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in € 50,00 per esborsi ed in € 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.