Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Prima della crescita – Ripartire dal lavoro

Presidente Tavanti Valore LavoroGià nelle prime pagine i libri di macroeconomia insegnano che le variabili in mano alla classe dirigente di un paese sono due: la leva monetaria e quella della spesa pubblica.

La combinazione delle due – in prevalenza stretta la prima e lasca la seconda, ma a volte anche il contrario – determina il grado di stimolo o freno che si vuole dare all’economia.

In questa fase economica, in cui la leva fiscale è forzatamente debole, uno degli elementi di maggiore difficoltà che incide sul funzionamento della leva monetaria in senso anch’esso restrittivo è proprio la rarefazione del credito in tutte le sue forme (sia per le imprese che per le famiglie), paralizzando così anche gli altri strumenti messi in campo per far ripartire l’economia e la produzione industriale. Ogni progetto si scontra con una stretta creditizia senza pari, dovuta non solo alla carenza di liquidità e ai vincoli in termini di rapporto capitale/impieghi che affliggono i bilanci delle banche, ma anche all’eccessiva finanziarizzazione del loro attivo e alla progressiva immobilizzazione delle risorse investite in titoli e strumenti finanziari. Al di là delle dichiarazioni, il sistema bancario si sta dimostrando uno dei freni più forti a qualsiasi scelta di investimento e di crescita dell’economia.

In questi anni abbiamo assistito a una strana combinazione: stretta fiscale e monetaria e tutte e due nello stesso tempo. La prima è stata voluta: l’eccessiva spesa pubblica degli anni ’80 e primi ’90 ha determinato una necessità di correzione non più prorogabile: i metodi possono anche essere messi in discussione, ma sicuramente non la necessità di agire.

La stretta monetaria, invece, è stata di fatto involontaria e non tanto determinata dalla direzione imposta dalle banche centrali quanto dalle debolezze strutturali del paese e dai mercati, che attaccano queste stesse debolezze.

Il cd “credit crunch” infatti ha due determinanti fondamentali: da una parte il prezzo, dall’altra la liquidità. Quella di prezzo è determinata dall’aumentare continuo dello spread creditizio rispetto al “free risk” imposto agli istituti di credito italiani. Il suo ampliamento riflette, tra l’altro, il progressivo deterioramento della qualità degli impieghi del sistema bancario e, rendendo sempre più onerosa la raccolta, accentua una stretta creditizia il cui impatto sull’economia non si è ancora probabilmente pienamente manifestato, ma che creerà una selezione fortissima negli attori economici.

La seconda determinante è la liquidità. In attivi costituiti quasi per la metà dalla componente finanziaria, un forte sbilanciamento (strutturale) sui titoli del debito pubblico irrigidisce notevolmente la liquidità comprimendo significativamente l’attività creditizia. Il ridimensionamento dei prestiti dei fondi monetari americani (per il peggioramento del merito creditizio degli istituti italiani e del rischio di meltdown dell’euro) e la deindustrializzazione della produzione di liquidità grazie all’ingegnerizzazione finanziaria – che attraverso la costituzione di derivati finanziari a più livelli aveva permesso una creazione artificiale di liquidità disponibile a cascata anche per la produzione di credito in ausilio all’economia reale – fanno il resto.

Quindi che fare?

Noi proponiamo due linee di azione.

Sul fronte della qualità del credito, seguendo l’esperienza della Svezia dei primi anni ’90 e del Banco di Napoli della metà di quegli anni, si proceda immediatamente alla creazione di una (o più) Bad Bank dove far confluire tutti i crediti di dubbio esito, esistente o potenziale. La Bad Bank dovrà essere dotata di licenza bancaria e operare sul mercato, ma con accesso ai finanziamenti della BCE soprattutto nella fase di avvio, successivamente i flussi dei recuperi saranno più che adeguati a renderne sostenibile il piano finanziario senza gravare sulle finanze pubbliche ne sulla BCE. Si proceda allo storno dei crediti ad un’equa valutazione (evitando gli avvoltoi pronti – di qua e di la dall’oceano – a fare l’ultimo pasto gratis dell’epoca moderna), si ricapitalizzino le banche se sarà necessario, e si permetta loro di valorizzare solo il rischio di merito creditizio in portafoglio, allargando la possibilità di nuovo credito agli investimenti delle aziende e alle famiglie consumatrici.

Con la Bad Bank si proceda su due piani: da una parte azioni di recupero crediti e dall’altra progetti di turn around. L’operazione permetterà ulteriori benefici sul conto economico delle banche, con un ritorno derivante anche dalla cessione alla bad bank (pur temporanea, con la formula del distacco) del personale addetto e una maggiore efficacia nel recupero dei crediti, gestiti integralmente dallo stesso soggetto anziché dai singoli operatori bancari. La qualità di una gestione “focalizzata” permetterà di selezionare con molta più efficacia le imprese (tra quelle i cui debiti sono stati ceduti alla Bad Bank) da inserire in un progetto di turn around, con molte più possibilità di successo e di trovare finanziatori anche nel mercato specializzato dei fondi di private equity.

Si eviti accuratamente l’esperienza irlandese, da poco fatta ma già un manuale di quello che uno stato non dovrebbe fare e la dimostrazione che ogni tipo di ideologia anche quella del libero mercato comporta danni enormi se non condita di buon senso. Infatti li si è preferito pensare ad un partenariato pubblico/privato, dando la maggioranza agli operatori privati nella misura del 51%. I livelli di leva finanziaria sono stati di abnormi(35 euro di debito per ogni euro di equity), i valore di libro sovrastimati grazie al meccanismo prima sconosciuto del Long term economic value (che in sostanza significa dire che i valori di mercato non rappresentano quelli reali e creare arbitrariamente valori differenti) dando così spese certe per i contribuenti e guadagni possibili per il partenariato pubblico/privato. Oltre tutto l’impianto utilizza eccessivamente l’ingegnerizzazione finanziaria che ha prodotto i danni che si stanno cercando di riparare con questo strumento.

Si eviti anche l’approccio spagnolo: mono prodotto ed emergenziale (come quello irlandese orientato verso il tamponamento dello scoppio della bolla immobiliare).

Sul fronte della liquidità, lo stato o meglio, la Cassa Depositi e Prestiti, con l’Europa , si dovrebbero far carico dei titoli pubblici. L’operazione, se ben strutturata, potrebbe essere profittevole, in linea con il mercato e con i target di rendimento dell’istituto. Questo potrebbe avvenire con mille modalità diverse, la fantasia certamente non manca e neppure gli strumenti (da un LTRO a 10 anni ad mille più interessanti). Ad esempio, si potrebbe pensare anche ad uno “sconto” dei titoli permettendo così alla Cassa Depositi e Prestiti di fare un’operazione a liquidità neutra che non intaccherebbe il capitale dell’istituto, sgraverebbe di un fardello le banche, non sarebbe un aiuto di stato ed avrebbe carattere chiaramente emergenziale, ma che nel medio periodo non comporterebbe alcuna perdita neppure per la BCE.

In questo modo la politica potrebbe ricominciare a pensare a fare politica economica e, forse, le banche a fare il proprio mestiere. Ovviamente questa soluzione, oltre a comportare un enorme sforzo di realizzazione, lascerebbe intatte la questione del cambio generazionale indispensabile per modernizzare l’approccio al credito, la necessità di sviluppare in Italia nuovi strumenti di finanza d’impresa, e tanti altri problemi; ma per partire bisogna pur sempre fare un primo passo.

Andrea Sintini – Angiolo Tavanti

Associazione Valore Lavoro

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *