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Napolitano: da Botteghe Oscure al Quirinale di Gianni Pittella

Il libro di Paolo Franchi ricostruisce con rigore e senza retorica il percorso di Giorgio Napolitano e lo fa restituendo la sua persona nella sua interezza.
Nel mio intervento mi concentrerò sul ruolo del Presidente nella definizione di una sinistra europeista e socialdemocratica nel nostro Paese.

Per comprendere il contributo di Napolitano, credo sia fondamentale partire dal legame profondo che lo ha legato a Giorgio Amendola.
Amendola proveniva da un filone di stampo liberale che incontrò il comunismo italiano sull’onda dell’antifascismo.
Di quella fibra liberale sono restati però una profonda lealtà alla democrazia, una cultura delle regole e delle garanzie individuali, e soprattutto la convinzione che la difesa della democrazia viene prima di considerazioni di parte, anche quando è il proprio partito ad essere coinvolto.
Napolitano viene da quella storia che è anche attraversata dal meridionalismo napoletano.
Napolitano è quindi figlio di quell’impasto che lega liberalismo, comunismo e meridionalismo.
Tutti quanti noi siamo figli di una qualche esperienza ma io ritengo che Napolitano sia soprattutto padre, nel senso di ispiratore, di una sinistra propriamente socialdemocratica e europeista. Anzi socialdemocratica proprio perché europeista come chiarirò più avanti.

Da questo punto di vista mi sembra che il lavoro di Franchi apporti un contributo fondamentale nel ricostruire questo filo rosso socialdemocratico.
Un filone che è stato a cavallo tra il Partito Socialista e il Partito Comunista ma che nessuno dei due partiti ha mai saputo interpretare fino in fondo. Non seppe interpretarla il Partito Comunista per ovvie ragioni in quanto la sua legittimazione era esterna, legata cioè all’esperienza sovietica, inconciliabile quindi con un disegno pienamente socialdemocratico. Ma nemmeno il Partito Socialista seppe interpretarla a fondo per i suoi limiti che riflettono poi i limiti storici della classe dirigente del nostro Paese dall’unificazione in poi e cioè quelle tendenze trasformistiche tanto importanti nella storia politica italiana. E vi prego di comprendere che il termine trasformismo va inteso in senso tecnico e non morale. Esso non ha nulla a che vedere con l’opportunismo politico ma riguarda piuttosto la tendenza delle forze politiche italiane a convergere verso il centro per emarginare le forze estreme.
Questo – la saldatura su posizioni centrali- fu il grave errore del Partito Socialista, in particolare di Craxi.
Il PSI preferì la strada, apparentemente più facile dell’accordo con la DC e poi col pentapartito.
Avrebbe invece dovuto sfidare il PCI a sinistra, mettendone in luce le ambiguità e timidezze. Avrebbe insomma dovuto fare quello che fece in Francia Mitterrand con la sua apertura a sinistra.
Ritengo che ciò avrebbe potuto permettere di costruire con le forze migliori del PCI una sinistra pienamente socialdemocratica. Si è invece scelta un’altra strada e ancora oggi ne paghiamo il prezzo.
L’Italia è l’unico Paese in Europa occidentale in cui non esiste una sinistra socialista.
E questo in qualche modo ci pone in una posizione singolare, e aggiungo io di debolezza, rispetto al resto del nostro continente.
Questo è il peccato originale della sinistra italiana, la mancanza di una forza socialista europea che sappia dialogare alla pari con le grandi forze europee.
Questa fragilità pesa ancora oggi. Quali sono i nostri referenti europei? Chi sono i nostri partners privilegiati a livello europeo? Con chi pensiamo di costruire un sistema di alleanze in Europa?

Guardate, non si tratta di questioni meramente tattiche, il problema di fondo è la visione della società e, in particolare dei rapporti tra economia e politica.
Da questo punto di vista, il PD corre il rischio di fratturarsi in due, di divaricarsi lungo una linea di frattura.
Da un lato, vi è infatti chi ritiene che si debba creare anche in Italia una “terza via” che sposi una visione liberal-democratica dell’economia che postula l’urgenza di una forte politica dell’offerta. Ciò vuol dire politiche strutturali coraggiose e una riforma e snellimento radicale di quel poco che resta del sistema di protezione sociale. Dietro questo approccio, bisogna riconoscere che c’è una forte seduzione nei confronti del liberismo di cui si apprezza la capacità di liberare energie economiche e sociali, prima represse.
Io stesso riconosco di essere stato molto attento e sensibile a questa visione, soprattutto durante l ‘esperienza di Tony Blair nel Regno Unito.
La crisi finanziaria ha però costituito uno spartiacque perché ha messo in luce l’esistenza di un rapporto di sudditanza della politica nei confronti di una cattivo capitalismo finanziario.
Vi è poi l’altra sponda, quella che definirei radicale. Essa rigetta completamente il percorso fatto negli ultimi decenni e ritiene che si debba tornare a forme più tradizionali di statalismo, ritiene che si debba adottare un approccio puramente antagonistico rispetto all’ economia di mercato e alla globalizzazione.
Questo approccio è a mio parere anacronistico perché elude il problema del cambiamento tecnico. L’economia finanziaria e la globalizzazione si sono spinti troppo in la e un semplice rigetto sarebbe semplicemente esiziale e irrealizzabile.
Bisogna invece lavorare al margine e cercare nella mediazione politica quotidiana, che è difficilissima e onerosa, margini di miglioramento. Questo non vuol dire limitarsi ad un compromesso al ribasso. Vuol dire riconoscere però che la regolamentazione dell’economia di mercato è un processo difficile e lungo, in cui non vi sono bacchette magiche ma che si misura tutti i giorni nella concretezza delle scelte.
Questa è la via socialdemocratica.
Vi faccio un esempio: sono stato recentemente negli USA per studiare la Volcker Rule, la regola cioè che prevede la separazione rigida tra banche di investimento e banche di deposito. Io credo che questo sia un provvedimento importante che debba essere assunto anche in Europa.
Confrontandomi coi miei interlocutori statunitensi, mi sono tuttavia reso conto che la sua applicazione è estremamente complessa per ragioni tecniche. Sarà quindi molto difficile arrivare ad un’entrata in vigore nel luglio del 2014 come attualmente previsto.
Ora, l’approccio della terza via riterrebbe probabilmente che queste difficoltà nell’applicazione sono la testimonianza della malvagità di questo provvedimento in quanto imporre vincoli eccessivi al sistema bancario che portano ad una situazione di paralisi. Bisognerebbe pertanto annacquare il più possibile il provvedimento.
L’approccio radicale riterrebbe invece che le difficoltà nell’attuazione provano che è indispensabile un maggiore coraggio e radicalità nelle rivendicazioni per superare ostacoli considerati come capziosi.
Una visione socialdemocratica ritiene invece che sia necessario sporcarsi le mani ogni giorno per raggiungere una separazione effettiva e funzionante tra banche di investimento e di raccolte. L’obiettivo di fondo non va abbandonato ma per raggiungerlo è necessario un lavoro attento e informato di vite e cacciavite, un’opera di ascolto, mediazione ma anche contrapposizione quando è necessario. Questo è il metodo riformista che è per me al cuore della socialdemocrazia. Questo è il metodo che le principali forze socialiste adottano in Europa. Capisco che possa deludere alcuni sostenitori ma questa è la strada che sta percorrendo, non senza difficoltà, Hollande in Francia.
Il rapporto con la sinistra socialdemocratica europea deve diventare costituente per il Partito Democratico.

Questa capacità di collocare i processi politici all’interno di una dimensione europea è un’ altra specificità della sinistra di Napolitano. Oggi è facile parlare di Europa, di partiti europei ma negli anni Settanta tutto ciò era considerato anche da una parte della sinistra, un’eresia. Io aggiungo che Napolitano non si limitava alla dimensione europea ma seppe aprire un dialogo intellettuale anche con la sinistra liberal anglosassone.
Nella visione di Napolitano appartenenza alla socialdemocrazia e costruzione europea sono intimamente legate.
Il mio rapporto col Presidente risale proprio alla sua esperienza a Strasburgo tra il 1999 e il 2004 in cui egli ricoprì il ruolo di Presidente della Commissione degli Affari Costituzionali. Guardate non è casuale che Napolitano sia diventato presidente della Commissione degli Affari costituzionali.
L’ Europeismo di Napolitano è infatti propriamente politico e non funzionalista. In questo egli si distingue da altre forme di europeismo.
Dall’ europeismo tecnocratico di Monnet secondo il quale il processo di Unione Europea doveva prefigurare un nuovo rapporto tra tecnica e politica in cui un corpo di regole giuridiche prodotte da una tecnocrazia illuminata avrebbero preso il sopravvento sulle lunghezze della politica.
Ma anche l’ europeismo dei cattolici sociali alla Delors che hanno ritenuto che ci si potesse appoggiare sulla moneta come cavallo di Troia per costruire l’ Europa ma questo è stato un errore come la crisi ha dimostrato.
Per Napolitano, al contrario, l ‘integrazione europea deve passare necessariamente da “un punto di non ritorno politico” per usare un’espressione da lui più volte usata. E questo Napolitano lo ha chiarito bene nel suo discorso di Mestre dello scorso settembre.
In quel discorso Napolitano definisce questo punto di non ritorno come il
“il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per il quale lottano uomini e partiti sarà il potere europeo”.
E qui sta il ruolo dei partiti politici che devono diventare europei. Solo attraverso la creazione di partiti politici europei si potrà creare un’ Europa unita. La moneta, la stratificazione giuridica, sono elementi importanti ma che non bastano, anzi possono essere scorciatoie molto pericolose.
Come vedete, i partiti politici giocano un ruolo essenziale nella costruzione dell’ Europa unita.
E, mi si lasci aggiungere, l’ Europa stessa può svolgere una funzione importante per rigenerare i partiti politici nazionali che spesso appaiono sfibrati e senza forza propulsiva.
Ecco cosa disse Napolitano sempre a Mestre:

“E’ attraverso il discorso sull’Europa che la politica può riguadagnare forza di attrazione, partecipazione e ruolo effettivo nelle nostre società. L’impegno politico che tanti uomini e donne della mia generazione posero al centro della loro vita può essere trasmesso e rinascere solo nella dimensione europea”.

Una forza socialdemocratica, riformista nell’approccio, con un forte senso delle istituzioni che abbia come obiettivo la costruzione degli Stati Uniti Europa: questa è la sinistra di Napolitano, questa è la sinistra che dobbiamo costruire.

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