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Se lo stato si disimpegna dall’economia che bisogno abbiamo dello stato?

di Luciano Fiordoni

 

Come noto il liberismo è una teoria economica che contempla il disimpegno dello stato dall’economia e viene associata ai principi del libero mercato che si sostanziano nel principio di Friederich Von Hajek” democrazia uguale libertà economica”. I nostri amm.ri (fanno specie quelli di “sinistra”) hanno sposato da tempo la teoria del libero mercato associata a parole come deregolamentazione e liberalizzazione. La conseguenza fattuale di tale scelta politica è davanti a tutti nel sistema Italia come nelle nostre città.
i) Cominciamo dall’industria del made in italy: questa è stata oggetto di un incessante processo di delocalizzazione verso i paesi dove erano più alti i vantaggi comparati sia in termini di costo di lavoro che di normative del lavoro e ambientali. Ne è conseguito un inaridimento del tessuto produttivo e impoverimento del know how della imprenditoria/ maestranze italiana. Una bomba socio economica per ora disinnescata con la cassa integrazione e i pacchi di pasta delle Coop. La globalizzazione che doveva aprire i nostri commerci a nuovi mercati non ha fatto che generare vantaggi economici per quelle aziende che hanno utilizzato i nuovi mercati per produrre a costi/normative marginali. Che cosa ha fatto la politica al riguardo? niente, ha lasciato fare al mercato.
2) Il commercio è anch’esso vittima della cecità ideologica della politica. Lasciando stare il fenomeno delle cittadelle degli outlet comparse come funghi nei terreni destniati all’agricoltura concentriamoci sui centri storici. Le città dette “centri commerciali naturali” hanno subito un processo di appiattimento/omogeneizzazione/perdita di identità che le ha rese tutte uguali: il corso di Siena come le vie principali di Firenze o di Milano. E’ l’avvento indisturbato delle monomarche che offrono ovunque lo stesso prodotto made in china e la stessa noiosa brutta immagine estetica. Questo ha causato la progressiva uscita dal mercato delle botteghe artigiane o dei singoli commercianti determinando l’asfissia del tessuto connettivo sociale già compromesso dai flussi migratori dalle città alle periferie suburbane. Anche qui l’assenza di una politica regolamentatrice giustificata dai comodi principi del mercato ha avuto il suo peso: gli affitti dei negozi alle stelle come il carico fiscale hanno pesato in particolar modo sulle microattività determinando una loro uscita dal mercato. Per tali motivi per es. a Siena si registrano continue chiusure di locali di singoli privati nella totale incuranza di chi “governa” la città.

Viene spontanea la domanda se esiste un disimpegno della politica nell’economia (e questo mi sembra quanto avviene ormai dagli anni ’90) che senso ha mantenere delle strutture della politica? che dovrebbero tutelare gli interessi di tutti e non solo di chi è portatore di vantaggi competitivi come la grande distribuzione o le aziende che delocalizzano. Se il mercato è in grado da solo di autoregolamentarsi che bisogno abbiamo di spendere dei soldi in burocrati il cui unico compito è di ratificare lo status quo?

Siena , 14 gennaio 2014

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