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La città metropolitana delineata nella legge Delrio è inadeguata. I nuovi enti assomigliano molto alle province, ulteriormente indebolite. La questione del sindaco metropolitano e gli obiettivi e le competenze da rafforzare. Almeno quattro i punti chiave che il Senato dovrebbe migliorare.
di Roberto Camagni
CITTÀ METROPOLITANE NELLA LEGGE DELRIO
Il disegno di legge Delrio, approvato dalla Camera e ora in discussione al Senato, oltre a trasformare le attuali province in enti di secondo livello e in prospettiva in pure agenzie a supporto dei comuni e delle unioni di comuni, stabilisce l’organizzazione, le funzioni e le modalità di elezione degli organi delle città metropolitane, previste dal Titolo V della nostra Costituzione.
Il sindaco del comune capoluogo diverrebbe anche il sindaco metropolitano, e il nuovo ente, che si sostituirebbe alla provincia sul suo territorio, sarebbe governato da un consiglio, eletto da – e fra – gli attuali sindaci e consiglieri comunali, e da una conferenza in cui siederebbero tutti gli attuali sindaci. Il sindaco metropolitano attribuirebbe deleghe a consiglieri di sua fiducia; tutte le cariche sarebbero a titolo gratuito , in omaggio all’obiettivo della legge di “ridurre la classe politica” e di limitare la spesa pubblica. A certe condizioni, dopo tre anni si potrebbe procedere all’elezione del sindaco a suffragio universale.
Con il disegno di legge Delrio è la terza volta in cui ci si accinge a costituire il nuovo ente, ritenuto necessario per rilanciare la competitività delle nostre grandi città nonché l’efficienza e la qualità delle loro aree di influenza: speriamo che sia la volta buona! Ma il problema sta nel fatto che la parte delle legge che tratta del tema della città metropolitana, al suo stato attuale, è inadeguata: la distanza fra obiettivi e soluzioni appare tale da far presagire un’ennesima occasione mancata per il paese.
Come recita la stessa relazione al disegno di legge iniziale, servirebbe “uno strumento di governo dalle ampie e robuste competenze”. Ma la proposta legislativa va in tutt’altra direzione: le città metropolitane assomigliano in larghissima misura alle province, già deboli istituzionalmente e ulteriormente indebolite; sono “enti governati dai sindaci” che prestano gratuitamente i loro servizi, senza risorse per le poche competenze aggiuntive. Le funzioni assegnate sono infatti “le funzioni fondamentali delle province”: pianificazione territoriale di puro coordinamento, infrastrutture interne e servizi di mobilità, ambiente, rete scolastica. Di nuovo troviamo sostanzialmente solo:
– il piano strategico: uno strumento di coordinamento e di indirizzo, certamente utile, ma che è possibile attivare comunque, come ha dimostrato la recente esperienza realizzata dalla provincia e dal comune di Bologna;
– la promozione dello sviluppo, ma totalmente senza risorse;
– la pianificazione territoriale generale, non meglio definita, che duplica e rischia di appiattirsi sulla pura pianificazione di coordinamento.
Di più: se si volesse passare all’elezione diretta del sindaco metropolitano occorrerebbe lo smembramento del comune capoluogo, una vecchia e sbagliata idea dei primi anni Novanta. Perché indebolire la città centrale per costruire una città metropolitana già debole?
QUATTRO PUNTI CHIAVE
Vediamo più in dettaglio quattro punti chiave. La pianificazione territoriale di area vasta – cui si dovrebbe attribuire il compito fondamentale di ridurre l’insensato consumo di suolo, anche riorientando l’attività edilizia verso la rigenerazione urbana – temo stia subendo lo stesso destino che si vuole per le province: un sostanziale ridimensionamento. La sua attribuzione a istituzioni di secondo livello è certo accettabile, come avviene in Francia per le Communautés urbaines, ma a condizione che se ne definiscano i poteri di inquadramento e di vincolo sulla pianificazione comunale, le funzioni loro trasferite dai comuni, il sistema di incentivi; in sintesi, “l’adeguatezza” delle nuove strutture per esercitare funzioni di area vasta. Occorrerebbe almeno indicare che la pianificazione metropolitana coincida con la ‘pianificazione di struttura’ introdotta e definita da molte leggi regionali italiane, come è stato giustamente suggerito da Luciano Vandelli, uno dei trentacinque saggi per le riforme nominati da Enrico Letta.
Quanto alla condizione dello scorporo del comune centrale –alleggerita alla Camera per le città metropolitane con più di 3 milioni di abitanti, ma in modo non facilmente giustificabile – potrebbe rispondere all’esigenza di evitare conflitti fra il sindaco del comune centrale e il sindaco metropolitano, una volta che entrambi siano eletti direttamente, secondo la giusta preoccupazione di molti. Ma perché utilizzare uno strumento nato per tutt’altro obiettivo – quello di evitare scontri fra capoluogo e hinterland – e comunque sbagliato? Perché temere un conflitto aperto fra le due istituzioni, che potrebbe essere evitato differenziando in modo chiaro le funzioni loro attribuite? Questa condizione renderebbe ancora più difficile il passaggio all’elezione diretta del sindaco metropolitano, un obiettivo di democrazia, anche se da raggiungere nel lungo periodo.
Una parola sul numero di città metropolitane prevedibili sulla base del testo di legge Delrio. In Francia, dopo un periodo di sperimentazione di cinquant’anni sulle Communautés urbaines, si è deciso oggi di passare alle Métropoles istituendone tre (per il momento). In Italia, dopo un dibattito di qualche mese e soprattutto nessuna sperimentazione, stiamo per lanciarne diciotto (nove obbligatorie + Roma + cinque possibili nelle Regioni a statuto speciale + tre nelle province con più di un milione di abitanti), aumentabili in futuro, più uno statuto di simile autonomia per due province montane. Ogni commento è superfluo.
Infine, occorrerebbe rafforzare nettamente sia gli obiettivi che le competenze attribuite alle città metropolitane, prevedendo almeno:
– una robusta competenza di pianificazione territoriale “di struttura”;
– una delega sulla fiscalità delle trasformazioni immobiliari e sulle relative rendite, oggi frammentata e tenuta a livelli incompatibili col finanziamento finanche delle infrastrutture di base e della manutenzione urbana;
– un esplicito obiettivo di riduzione dei consumi di suolo,
– un obiettivo di semplificazione ed efficientamento della gestione delle aree produttive,
– una competenza su edilizia sociale e riuso del patrimonio edilizio inutilizzato,
– l’istituzione di un “consiglio di sviluppo” metropolitano con le parti sociali, economiche e culturali, sull’esempio francese,
– la proposizione di credibili procedure per la partecipazione dei cittadini,
– un’azione di comunicazione e di costruzione di un’identità metropolitana.
Si tratta di materie che potrebbero essere anche successivamente introdotte nei singoli statuti metropolitani con leggi regionali, ma sulle quali sarebbe molto meglio che la legge nazionale desse almeno un forte indirizzo, invece di restare totalmente muta. Al Senato spettano oggi, a mio avviso, queste cruciali responsabilità.
ROBERTO CAMAGNI
E’ Professore Ordinario di Economia Urbana al Politecnico di Milano e Direttore del gruppo di ricerca di Economia Regionale e Urbana. È esperto di sviluppo regionale e urbano, diffusione territoriale delle tecnologie e dell’innovazione, valutazione di processi di trasformazione urbana.