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Che le retribuzioni dei dirigenti pubblici italiani siano elevate è fuor di dubbio. L’intervento di Perotti e Teoldi del 17 gennaio le ha comparate alle retribuzioni dei pari grado inglesi, ma può essere utile un ragionamento di confronto nazionale, anche perché del tema si sta concretamente discutendo in molti enti pubblici. Tra il 2000 ed il 2012, in Italia, le retribuzioni di tutto il settore pubblico sono aumentate del 39,2%, a fronte di un aumento del 36,7% del settore privato e di una inflazione effettiva incrementata del 31%. Mentre nel settore pubblico si è sempre registrata una maggiore omogeneità, nel privato persiste un forte scarto tra i salari dell’area manifatturiera (più elevati) e quelli dell’area dei servizi. E’ vero che, a partire dal 2010 le retribuzioni pubbliche sono state congelate ed il rallentamento è ora visibile soprattutto se il blocco dovesse essere confermato per un altro triennio. Tuttavia nel confronto con il privato, il pubblico impiego sembra mantenere un leggero vantaggio: secondo i dati Istat (2011) la retribuzione media contrattuale (esclusa la componente aziendale o locale) di 24.363 € annui si articola in 23.616 € per il privato e in 27.830 € per il pubblico. Naturalmente si confrontano due realtà profondamente diverse: circa 20 milioni di lavoratori privati con circa 3,3 milioni di dipendenti pubblici. Così la media del privato viene abbassata dagli stranieri, dai precari e dai contratti part-time, mentre il pubblico, tra l’altro, viene accreditato anche da una età media notevolmente più alta (47,8 anni). Almeno nell’ordine di grandezza generale i dati appaiono credibili: la retribuzione italiana media di fatto di 26.500 € lordi annuali, corrisponde a circa 1.300 euro netti mensili, ma anche coloro che tra i dipendenti pubblici collocano la loro retribuzione al di sotto di questa media continuano ad essere considerati dei privilegiati dalla maggioranza dell’ opinione pubblica per la natura particolare del rapporto di lavoro, che di fatto (salvo casi eccezionali) li mette al riparo da licenziamenti e cassa integrazione. Se questo è lo scenario generale, la situazione dei dirigenti pubblici si inquadra meglio: bisogna però precisare meglio la definizione di “dirigente pubblico”. Il comparto maggiore è quello sanitario,con 135.000 dirigenti complessivi dove contrattualmente sono dirigenti i 107.000 medici, ma anche altri 18.000 laureati come biologi, farmacisti, veterinari ecc., oltre a circa 10.000 dirigenti amministrativi in senso stretto che normalmente sono i soli ad essere computati come dirigenti della pubblica amministrazione. Ci sono poi 10.000 magistrati, 16.000 ufficiali delle forze armate e 4.000 dirigenti dei corpi di polizia con stipendi equiparabili a quelli dei dirigenti. I dirigenti amministrativi in senso stretto sono oggi circa 48.000 con una retribuzione media di 79.100 € (3.600 euro netti mensili, ma i dirigenti apicali superano i 5.000 euro); il loro costo è quindi di circa 3,8 miliardi annui per le casse pubbliche, dei quali il 20% circa (le norme a partire dal dlgs,165/2001 direbbero il 30% ma sono applicate solo parzialmente), cioè 760 milioni annui, rappresentati dalla cosiddetta retribuzione di risultato. Che cosa è la retribuzione di risultato? Introdotta alla fine degli anni novanta dalle “leggi Bassanini”, essa voleva superare lo strumento degli scatti di anzianità per introdurre il concetto di raggiungimento degli obiettivi: se a fine anno avrai raggiunto gli obiettivi che l’amministrazione ti ha assegnato, riceverai il premio o parte di esso. Mutuata dall’esperienza anglosassone del public sector, come spesso accade è stata però “adattata” al sistema italiano, nel senso che nell’esperienza anglosassone il controllo di qualità sull’efficacia dell’azione amministrativa è affidato in larga parte ai beneficiari del servizio erogato dall’amministrazione in questione. Il feedback dell’utenza risulta quindi elemento centrale nella valutazione non tanto del risultato o del raggiungimento dell’obiettivo da parte del singolo dirigente, ma del raggiungimento degli obiettivi da parte dell’amministrazione nel suo complesso in termini di mission. Al di là della forma, la quasi totalità degli enti pubblici italiani ha invece adottato una formula di premio individuale e non collettivo, senza traccia di gradimento esterno (tranne qualche caso in sanità) e non di rado è il dirigente stesso (non solo apicale) che si programma gli obiettivi, con l’ovvia precauzione di fissare l’asticella ad una altezza raggiungibile abbastanza facilmente. Naturalmente tale prassi si estende anche ai livelli più bassi della P.A., ma l’attenzione dell’opinione pubblica si sofferma inevitabilmente su coloro che guadagnano quasi il triplo dell’italiano medio, e per i quali il concetto di produttività deve ancora trovare una adeguata definizione. Nella attuale situazione del paese, tuttavia, questa è una riflessione già in corso: molti enti vogliono, o stanno proponendo, di ridurre la retribuzione di risultato e molti dirigenti pubblici sono disposti a discuterne; il sindacato confederale ha ben chiaro il dualismo sempre più problematico, tra il settore pubblico e quello privato. Ci sono già accordi che vanno in questa direzione in diversi enti. E’ una discussione attuale e possibile: esistono gli strumenti contrattuali per farla e questa è la strada da perseguire, perché eventuali provvedimenti normativi sarebbero bloccati o rallentati da un contenzioso legale infinito. Per le casse pubbliche si potrebbero gradualmente ridurre i 760 milioni annui, per i dirigenti può essere l’occasione per ridiscutere l’organizzazione del lavoro pubblico su criteri prevalentemente qualitativi e di maggiore soddisfazione. Forse alcuni anni fa una discussione di questo tipo sarebbe apparsa impossibile, ma se il vento spinge in questa direzione non è soltanto per la crisi economica e le disuguaglianze da essa indotta: ma anche perché il dirigente pubblico ha gradualmente perduto almeno in parte, quell’alone di competenza e di autorevolezza che lo ha circondato per decenni. Se molti di loro vengono oggi guardati con il sospetto di rappresentare un fattore burocratico di inutile complicazione, ridurre contrattualmente la propria retribuzione di risultato ed orientare decisamente gli obiettivi da raggiungere in direzione della semplificazione e trasparenza amministrativa (anche consultando soggetti esterni nella individuazione degli obiettivi stessi) rappresentano una occasione da cogliere. (1)
Bologna 15 febbraio 2014
(1)Le opinioni espresse nell’articolo sono personali e non coinvolgono l’ente rappresentato