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La riforma del Titolo V per definire le competenze di Stato e Regioni è opportuna. Ma non basta. Bisogna porre un freno anche all’inflazione di leggi regionali, spesso inutili, mal coordinate fra loro e mai sottoposte a valutazione. Il buon esempio dell’Emilia Romagna.
TROPPE LEGGI REGIONALI
La riforma del Titolo V della Costituzione è uno degli impegni del Governo nei prossimi mesi, soprattutto per la definizione della competenza di materie che negli ultimi dodici anni hanno alimentato un contenzioso crescente tra Stato e Regioni, tanto da rappresentare oggi un terzo del lavoro della Corte Costituzionale (prima del 2001 era il 10 per cento). Negli ultimi anni il baricentro della Corte si è spostato progressivamente a favore dello Stato, accogliendo il 50 per cento dei suoi ricorsi, contro il 20 per cento di quelli delle Regioni.
Ma non si tratta solo di questo: le Regioni sono chiamate anche a uno sforzo di semplificazione.
Solo da pochi anni, nel nostro paese, ha cominciato ad affermarsi il concetto che la quantità di leggi non è sinonimo di buona amministrazione e di adeguata risposta alla crescente complessità della società.
Quando, nel marzo 2010, il ministro Calderoli annunciò il rogo di migliaia di leggi inutili mancavano pochi giorni alle elezioni regionali. Il tempo si è incaricato di dimostrare che quel falò era un’operazione prevalentemente mediatica senza riscontri amministrativi reali, ma è significativo che in quella occasione nessuno abbia citato il tema della normativa regionale.
Eppure, se il problema è quello dell’inflazione di norme, nei loro oltre quaranta anni di storia, anche le Regioni hanno dato un contributo non indifferente, come dimostra la tabella sotto.
Oltre ventimila leggi regionali vigenti (non sono disponibili i dati 2012 per Sicilia, Sardegna e provincia autonoma di Bolzano) equivalgono al numero delle leggi nazionali attuali, e al contrario del livello nazionale, il trend non appare decrescente.
A loro volta, ed esattamente come accade per quelle nazionali, le leggi regionali spesso hanno dato luogo a una serie di regolamenti applicativi comunali e locali, che hanno ulteriormente complicato il quadro.
Il fenomeno colpisce l’Italia in modo più grave rispetto ad altri Stati europei: paesi come Francia o Gran Bretagna, non solo hanno un numero di leggi nazionali considerevolmente inferiore al nostro, ma non prevedono norme regionali.
L’ESEMPIO DELL’EMILIA ROMAGNA
Sono tutte utili queste normative regionali? Evidentemente no, anche perché si possono individuare sommariamente tre tipologie: leggi di principio e non finanziate, senza alcuna ricaduta effettiva; norme applicative delle leggi nazionali (delle quali le imprese cominciano a contestare la eccessiva eterogeneità) e infine leggi che erogano contributi a soggetti pubblici e privati nell’ambito regionale.
Non deve destare sorpresa quindi se nel quadro di un riassetto istituzionale un po’ confuso, che ha individuato nelle province (o meglio nel loro livello politico) l’anello debole della catena, riemergono spinte centraliste, che vorranno rivedere gli aspetti di legislazione concorrente previsti dal Titolo V della Costituzione, e non mancheranno neanche coloro che proporranno di sopprimere le competenze normative delle Regioni, mantenendo per loro soltanto funzioni amministrative.
Tuttavia, se l’obiettivo è la semplificazione, esistono soluzioni intermedie.
Nel corso del 2013, ad esempio, la Regione Emilia-Romagna ha istituito un tavolo per la semplificazione che ha coinvolto anche parti sociali ed enti locali e che, dopo un lavoro di alcuni mesi, ha portato all’abrogazione di una ottantina di leggi regionali giudicate obsolete, soprattutto in materia urbanistica e ambientale.
Tuttavia, il problema dell’inflazione normativa italiana non risiede semplicemente nel numero delle leggi, ma nella loro mancanza di coordinamento e nel loro contenuto frammentario.
L’effettiva utilità di una legge deve essere inoltre valutata a posteriori, non solo da semplici monitoraggi (comunque utili), ma da una analisi controfattuale che verifichi cosa sarebbe successo in loro assenza. La mancanza di effettivi percorsi di valutazione contribuisce a una ideologizzazione del dibattito politico. In questo senso appare opportuno che ogni Regione e ogni struttura pubblica in generale si doti di un tavolo di semplificazione per ridurre e accorpare testi normativi e provvedimenti amministrativi in generale. Almeno una parte della retribuzione di risultato di dirigenti e funzionari andrebbe collegata al raggiungimento di obiettivi in questa direzione.
* Le opinioni espresse nell’articolo sono personali.
Bologna 14 marzo 2014