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La famiglia Bélier

 bel_ndi Maria C. Fogliaro

 Si apre con la nascita di un vitello, La famiglia Bélier (La Famille Bélier, Francia, 2014, 105’), ultimo lavoro cinematografico di Eric Lartigau, film di grande successo oltralpe – con sei nominations ai César du cinéma del 2015 –, dove è uscito nel dicembre del 2014.

All’inizio del film tutta la vita della famiglia ruota intorno all’azienda agricola di proprietà e il ritmo dell’esistenza dei protagonisti è scandito dal lavoro nei campi, dall’allevamento degli animali, e dalla produzione e vendita di formaggi al mercato locale. Tutti i membri della famiglia sono sordi, eccetto la sedicenne figlia maggiore Paula (Louane Emera, rivelazione della gara canora televisiva «The Voice»), che costituisce il ponte di comunicazione indispensabile fra i suoi familiari e il resto del mondo. A interrompere la quotidianità domestica, descritta nella parte iniziale del film – sceneggiato da Stanislas Carré De Malberg e Victoria Bedos, e ispirato al romanzo di Véronique Poulain, Les mots qu’on ne me dit pas (Stock, 2014) –, interviene una scoperta. Iscrittasi senza troppa convinzione a un corso di canto, Paula riconosce, grazie al giudizio attento e alla guida di Monsieur Thomasson – il maestro di canto, abilmente interpretato da Éric Elmosnino –, di avere «qualcosa che dorme là dentro» e, sollecitata dal maestro, si trova a dover decidere, senza non pochi tentennamenti, sulla propria partecipazione a un concorso canoro organizzato a Parigi da Radio France. La decisione è tormentata e la scelta che Paula farà è destinata a cambiare la propria vita e quella dei suoi familiari – quella del padre Rodolphe (François Damiens,), della madre Gigi (Karine Viard) e del fratello Quentin (Luca Gelberg) –.

Leggero e divertente, vivace e ironico, il film di Lartigau affronta, in prima battuta, con delicatezza e sensibilità, senza sentimentalismi, la questione della disabilità. Mettendo in scena i gesti quotidiani, le difficoltà da gestire e superare, il film spinge presto lo spettatore ad entrare nella normalità di questa famiglia – alle prese con le più comuni dinamiche domestiche, e con le aspettative e i dubbi che si agitano nella mente di una figlia adolescente – e porta il pubblico a osservare con sguardo nuovo l’impossibilità di sentire e di parlare dei personaggi rappresentati. Alla fine lo spettatore è attratto non più dalla condizione fisica, ma dalla personalità dei protagonisti – significativa, a questo proposito, è la scena in cui Rodolphe decide di candidarsi per fare il sindaco del suo paese e per la campagna elettorale adotta il motto, a suo modo geniale, «Io vi ascolto» –. Man mano che il racconto procede si arriva, quasi, a non avvertire – grazie alla bravura recitativa degli attori – alcuna separazione fra il mondo di quelli che parlano e il mondo di quelli che comunicano attraverso i segni, che sono una vera lingua, con un proprio lessico, una propria grammatica e una propria sintassi. Il film di Lartigau ci mostra che il mondo è uno, e tanti sono i codici che consentono di decifrarlo. La sfida è imparare a comunicare in modo nuovo e a incrociare – come in un gioco multisensoriale, che coinvolge la vista, l’udito e il tatto – i diversi linguaggi, quello visivo e quello sonoro, fino a scoprire che non esistono barriere insormontabili e che tutti gli eventi sono diversamente percettibili. Per raggiungere questo risultato, gli attori – tranne il giovane Luca Gelberg e Bruno Gomila (nel ruolo di Rossigneux, uno degli abitanti del paese), che sono veramente non udenti – hanno studiato, per quattro ore al giorno tutti i giorni, per sei mesi, il linguaggio dei segni, sotto la guida vigile di un insegnante non udente di origine moldava, Alexeï Coïca, che ha seguito gli attori anche sulla scena.

Fin dall’inizio La famiglia Bélier cade dentro una questione fondamentale che fa parte della storia intellettuale francese: si tratta della contrapposizione fra città e campagna, fra la capitale e la provincia. Da L’albero, il sindaco e la mediateca di Eric Rohmer del 1993, a Giù al nord di Dany Boon del 2008, a Potiche – La bella statuina di François Ozon del 2010, a Tre cuori di Benoît Jacquot del 2014, questa tematica, esplicitamente formulata o velatamente accennata, è stata molto presente nella cinematografia francese contemporanea. Il film di Lartigau, fin dalle prime sequenze, si concentra sulle immagini della campagna che si estende a perdita d’occhio, su quelle del paese, delle sue strade, della sua piccola chiesa, il tutto avvolto in un’atmosfera di gioiosa tranquillità. La tensione fra la campagna – custode dei valori morali e della tradizione – e la grande città – raccontata come luogo pieno di pericoli o, all’opposto, come porta spalancata su infinite possibilità – è qui ben rappresentata dalla figura non risolta di Monsieur Thomasson, che vive la sua condizione di cittadino di provincia come una punizione «per aver commesso chissà quale peccato» e che spronerà, con determinazione, la sua giovane allieva Paula ad abbandonare quel «buco in mezzo ai bifolchi». Al contrario, per i Bélier la città è un luogo pieno di insidie, dominato dal consumo omogeneizzante di massa e dall’alienazione. Rodolphe vorrebbe diventare sindaco proprio per rappresentare i settori della sua cittadinanza timorosi dei pericoli che intravedono dietro i processi di modernizzazione selvaggia – nel film ben delineati dai propositi di cementificazione senza regole del sindaco M. le Maire (Stephan Wojtowicz) –. Il film è quindi, da un lato, una celebrazione della campagna profonda e della tradizione e, contemporaneamente, un invito a prendere in mano il proprio destino e a lanciarsi senza paure verso la Vita.

Con questo film Eric Lartigau firma la sua quinta fatica cinematografica – in Gli infedeli (Les Infidèles, Francia, 2012) aveva diretto soltanto l’episodio che porta il titolo Lolita –. Bravi gli attori: divertente il duo formato da Karin Viard e François Damiens, già insieme sulle scene in Rien à déclarer (2010); perfetto Éric Elmosnino, che, per interpretare al meglio il personaggio di Thomasson, ha preso lezioni di canto e si è fatto seguire da un pianista per perfezionare la propria gestualità; fresca la recitazione della giovane Louane Emera, che con il suo personaggio rappresenta la vera traduttrice universale e il simbolo della fattibilità di una comunicazione nuova, che è il vero centro del film. Perfetti i campi lunghi che valorizzano le vivaci immagini della campagna. Protagonista fondamentale di tutto il film è la musica, composta da Evgueni e Sacha Galperine. Coinvolgente è l’omaggio reso al famoso chansonnier parigino Michel Sardou, simbolo della canzone popolare francese, artista che nel film è amato da Monsieur Thomasson, il quale inviterà i propri allievi a interpretare alcune delle canzoni più famose del celebre cantante, da Je vais t’aimer a Je vole, passando per La Java de Broadway e La Maladie d’amour. Alla fine, chiudendo gli occhi, quello che ci si porta dentro del film è soprattutto la musica, con il suo carico di nostalgia per un mondo che non è più.

 Bologna, 1 aprile 2015

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