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Prosegue lo scontro fra la strenua difesa dell’austerità da parte della Buba e del governo tedesco, che ha portato al congelamento dell’economia europea e alla crisi della Grecia e dei “pigs”, e gli ormai numerosi fautori d’una ripresa di stampo keynesiano, sostenuta in primo luogo da Stati Uniti e Cina, ma ora anche dal FMI e dalla BCE, che ha avviato la “facilitazione monetaria”, e persino da una parte della sinistra e del sindacato tedesco, che possono vantare i primi positivi risultati d’una ripresa che per consolidarsi, esige però un maggiore coordinamento internazionale e l’adozione d’una politica economica espansiva anche nell’Eurozona.
Molti economisti hanno cercato di scoprire le radici di tale ossessiva austerità tedesca. Alcuni l’hanno spiegata col ricordo dell’iperinflazione degli anni ’20, ma l’economista Fabian Lindner, di Düsseldorf, ha chiarito che a portare Hitler al potere è stata invece la feroce politica deflattiva del governo di Heinrich Brüning, il “cancelliere della fame”, che ha tagliato i salari pubblici, le pensioni e l’assistenza sociale, approfondendo la crisi. Infatti sono proprio le politiche di austerità deflattiva che provocano una risposta populista di estrema destra, come appunto sta avvenendo anche oggi nella maggior parte dei paesi europei. Altri ancora hanno cercato una spiegazione nella cultura popolare tradizionale, ricordando che in tedesco “Schuld” significa sì “debito”, ma anche “colpa”, da cui deriva la convinzione che le politiche keynesiane indurrebbero a un peccaminoso lassismo di bilancio di cui sarebbero dunque colpevoli i paesi debitori. Ma la colpa deve essere espiata ed esige una punizione per evitare che si propaghi. Per questo i paesi debitori non devono ricevere prestiti dalla Bce al tasso del 2%, ma devono essere sottoposti al “giudizio” e alla “vendetta dei mercati”, pagando anche, come la Grecia, un tasso usurario fino al 38% annuo, evidentemente impossibile da restituire. Non a caso Carli chiamava il rialzo dei tassi la “corda del boia”. Ma i “mercati”, che dovrebbero giudicare la virtuosità o colpevolezza dei paesi sono governati da quella decina di grandi banche internazionali (statunitensi, inglesi, tedesche e francesi), che negli anni ‘30 erano state soprannominate “banksters” (ovverso bankers – gangsters) dal New York Time e guadagnano cifre gigantesche dalla speculazione finanziaria a danno delle condizioni di vita delle popolazioni. Sono state costrette a pagare multe miliardarie per l’attività di riciclaggio di denaro sporco, le truffe sui mutui “subprime”, le manipolazioni sui prezzi delle materie prime e preziose, sui tassi di interesse (Libor ed Euribor, usati per definire i prezzi dei mutui in tutto il mondo) e cinque di loro (JP Morgan, Citigroup, RBS, UBS), definite il “cartello”, hanno dovuto ammettere ufficialmente la colpa di aver alterato il mercato dei cambi e sono state ora costrette a pagare una multa di 5,6 miliardi di dollari, ma ne avevano truffato molti di più. Si tratta della più grande truffa finanziaria della storia, e proprio queste banche sono chiamate a giudicare il comportamento della Grecia, ridotta alla fame, e degli altri paesi debitori, forse in futuro anche l’Italia!
Altri economisti hanno sottolineato l’analogia rispetto a quanto è già avvenuto con l’ “Anschluss” della Germania orientale, acquisita a prezzi fallimentari, che Berlino intenderebbe ripetere con l’intera Europa, per competere poi alla pari con Cina e Stati Uniti nei futuri assetti politici e finanziari mondiali.
Wolfgang Munchau sul Financial Times ha spiegato che questa cultura del rigore è figlia dell’ “ordoliberismo”, una teoria economica nata in Germania dalla coniugazione del darwinismo sociale neoliberista della scuola di Vienna (Von Hayek e Von Mises), con le teorie giuridico-istituzionali della scuola di Friburgo (Euken, Böhm-Bauwerk, Rüstow, Röpke). Condivide con il liberismo classico l’idea dello “stato minimo” e il rifiuto dell’interventismo statale keynesiano, ma a differenza di quello ritiene che il mercato non sia in grado di autogovernarsi trovando autonomamente un punto di equilibrio, ma richieda una fissazione di regole, in particolare a sostegno della centralità della concorrenza, il controllo rigoroso dell’inflazione attraverso il pareggio di bilancio e la completa liberalizzazione dei licenziamenti, intesa come norma antimonopolistica. Si tratta d’una teoria olistica e rigida, inflessibile e inderogabile, un vero e proprio dogma che non ammette compromessi e intende imporre il primato delle regole economiche sull’intera società. Già Von Hayek affermava che “il controllo dell’economia sulla società è un controllo globale totale, senza alternative”, non diversamente da ciò che sosteneva la Tatcher con il motto “TINA”, ovvero “There Is No Alternative”, non c’è alternativa. È il “pensiero unico” fondato sulla teoria della “austerità espansiva”, che persino il FMI ha abbandonato perché palesemente falsa, perché ha dimostrato che l’austerità è unicamente recessiva (e determina un “moltiplicatore negativo” sull’economia), ma che continua ad essere proclamata, per motivi essenzialmente politici, dalla BCE e daslla Commissione europea.
Ma senza alternativa non esiste più la politica, il sindacato, la società civile e neppure le istituzioni elettive rappresentative che, per esistere, devono consentire la possibilità di scegliere fra soluzioni diverse, altrimenti comanda solo l’imperativo economico di istanze tecnocratiche non elettive, come avviene appunto oggi con la Troika, che impone i propri vincoli neoliberisti contro il lavoro e lo stato sociale, e anche la stessa democrazia. La Frankfurter Allegemeine Zeitung ha sostenuto che in Europa non c’è alternativa alla Troika, ma il Financial Times ha definito la Troika “un gruppo di non eletti che amministra l’Europa intera”. Ma anche la Troika è divisa, con l’FMI che ha sollecitato la BCE ad attuare la “facilitazione monetaria” (il “Qe”, “Quantitative easing”, ovvero l’acquisto di titoli sovrani sul mercato primario, vietato dallo Statuto della BCE) elogiando il coraggio di Draghi che, dopo l’allarme di Jackson Hole dei governatori centrali rispetto alla minaccia della depressione, ha aggirato i vincoli statutari imposti dalla Germania, avviando, nonostante la forte ostilità della Buba, il “Qe” in Europa e annunciato di volerlo mantenere fino a quando sarà necessario.
Va ricordato come la lingua italiana distingua nettamente la teoria politica del “liberalismo”, che è il fondamento teorico della democrazia occidentale, dal “liberismo” economico, che di fatto vi si contrappone e sta svuotando la sovranità delle istanze elettive e delle rappresentanze sociali, imponendo una investitura tecnocratica legittimata non dal consenso ma da imperativi economici; un modello che Popper ha definito “il capitalismo del lavoro come merce”. Al contrario la lingua inglese, ma anche tutte le altre lingue (tedesco e francese comprese), non distinguono fra liberalismo politico ed economico, assimilandoli in un unico termine, sempre più contraddittorio, ma ne consegue una maggiore difficoltà a percepire la profonda contraddizione esistente tra questi due concetti, che viene celata sotto un velo di apparente omogeneità linguistica.
La costruzione europea riflette esattamente l’impostazione “ordoliberista”, dai “parametri di Maastricht” (giustamente definiti “stupidi” da Prodi), ai vincoli imposti statutariamente alla BCE (la sola lotta all’inflazione), al trattato intergovernativo sul Patto di bilancio (Fiscal compact). Così il “decalogo neoliberista” del “Consenso di Washington”, ormai abbandonato negli Stati Uniti, si è trasformato nell’Eurozona, pressoché immutato, nel “Consenso di Berlino”. Alla base di quest
Una sorta di dogma per cui, nonostante la recessione, la Germania non intende cambiare strada, perché ritiene che il rispetto delle regole debba essere rigoroso, e che la crescita non si finanzi con il debito ma con i conti a posto, anche se ciò ci sta portando verso la catastrofe e la dissoluzione dell’Eurozona. In realtà si tratta di norme datate, intrinsecamente recessive, create per lottare contro l’inflazione, ma del tutto incapaci di sottrarci all’incubo della deflazione che invece tendono ad aggravare.
Inoltre le regole europee sono cogenti solo in ambito monetario e di bilancio ma non su quello sociale. Le riforme strutturali, chieste dalla Commissione europea riguardano essenzialmente la completa flessibilizzazione del mercato del lavoro attraverso la liberalizzazione dei licenziamenti, il taglio delle pensioni, del welfare e del pubblico impiego, ripetendo quella disastrosa esperienza di Brüning che ha spalancato le porte al nazismo.
Secondo Jens Weidman della Buba, “se ogni paese facesse le necessarie riforme strutturali la crescita riprenderebbe”. Anche la Commissione europea propone ancor oggi, sia pure con qualche dubbio, il modello tedesco come esempio da seguire anche per gli altri paesi europei. Ma è possibile fare come la Germania?
Secondo il Financial Times la Germania ha adottato una politica neomercantilistica aggressiva, la cosiddetta “politica rubamazzetto” (“b.t.n.”, beggar thy neighbour), fortemente concorrenziale, che cerca il proprio vantaggio, “riducendo in miseria i propri vicini”. In Germania viene definita il “principio di San Floriano”, dalla preghiera “Santo Floriano, risparmia la mia casa, brucia le altre”. È chiaro che questa politica può funzionare solo in un o due paesi, a danno degli altri e dunque non ha alcun senso di dire di “fare come la Germania”, perché non funziona e la Germania può comportarsi come sta facendo solo a danno degli altri paesi . Infatti questa politica è stata adottata da tutti i paesi dopo la crisi del ’29, e ha contribuito ad aggravare la depressione fino alla Seconda guerra mondiale. L’economista Alan Deardoff l’ha spiegata col “dilemma del prigioniero”, della teoria dell’equilibrio di Nash, in quanto ogni paese ha interesse singolarmente a perseguire tale politica aggressiva nei confronti dei sui concorrenti ma così peggiora la situazione di tutti, compreso sé stesso.
Inoltre nell’Eurozona opera il cosiddetto “Ciclo di Frenkel”, perché, in assenza d’un Tesoro europeo in grado di compensare le divergenze fra i vari paesi, in una situazione di libertà di movimento dei capitali e di esposizione alla speculazione internazionale, l’euro funziona come una moneta straniera, al pari del “currency board” che ha provocato la crisi argentina.
Le regole europee non consentono oggi alcuna possibilità di riaggiustamento dei differenziali di produttività e dei costi relativi di produzione che veniva realizzato in precedenza attraverso contenute svalutazioni competitive. Ciò impone una “svalutazione interna”, ovvero una strategia deflattiva, sollecitata dalla Commissione europea, operata attraverso la riduzione dell’occupazione e delle retribuzioni del pubblico impiego, delle pensioni e del welfare, per aumentare la competitività favorendo una politica commerciale aggressiva ma, senza io contributo del mercato interno, che viene in tal modo tagliato per motivi di concorrenza, ciò non è sufficiente a rilanciare l’economia, ma anzi porta ad una spirale depressiva e a una feroce guerra commerciale.
Le politiche restrittive di bilancio europee, imposte dai Trattati, sono intrinsecamente deflattive, costituiscono un “moltiplicatore negativo” e determinano una crescente divergenza strutturale fra i diversi paesi dell’Eurozona, aumentando il rapporto debito/pil e rendendo sempre più difficile il rientro dei paesi in deficit, per cui l’Eurozona è sempre più divisa fra creditori strutturali e debitori senza speranza. Nessun paese dell’Eurozona può rilanciare l’economia da solo in termini keynesiani, in controtendenza rispetto alle politiche di austerità dell’Eurozona, perché in tal modo creerebbe lavoro solo negli altri paesi, con la crisi della propria bilancia commerciale, come è avvenuto nella Francia di Mitterrand.
L’unico paese in grado di fare da locomotiva alla crescita europea, per la sua centralità economica nei confronti di tutti gli altri paesi, è la Germania, che sta invece giocando anch’essa a rubamazzetto attraverso la diffusione dei “kurzabeiten” a 450 euro al mese, creati dalla “riforma Hartz” del 2004 e il sostegno alle esportazioni extraeuropee, principalmente verso i mercati asiatici e, soprattutto, la Cina.
Con queste politiche deflattive, sta esportando recessione e disoccupazione in Europa, sottraendo domanda all’economia reale degli altri paesi e, investendo fuori dall’Eurozona il suo cospicuo avanzo commerciale, anziché impiegarlo per creare domanda aggiuntiva interna, che trainerebbe lo sviluppo in Europa. Ma una domanda sufficiente può essere sostenuta solo dai salari (wage-led growth) e non può reggersi unicamente sulle esportazioni extra Ue, specie in assenza d’un paese “consumatore d’ultima istanza” come sono stati, fino al 2008, gli Stati Uniti e in presenza d’una flessione della crescita economica anche dei Brics. Per questo anche la Germania è in crescente difficoltà.
Summers e Krugman hanno avvertito del rischio d’una “stagnazione secolare” e il pericolo è accentuato dal fatto che l’attuale spinta generalizzata ad una crescita della competitività, in una situazione di stagnazione della domanda globale, produce effetti depressivi irrecuperabili. Ogni paese reagisce perciò accentuando la concorrenza trascinando il tutto in un circuito vizioso di svalutazioni interne. È ciò che assurdamente consiglia il patto di bilancio (taglio delle pensioni, del welfare, della spesa sociale, dei dipendenti pubblici, dei salari, ecc.). Le politiche B.T.N. sono costosissime ed economicamente devastanti. Impongono un’austerità che uccide la domanda interna non produce crescita europea, ma una uscita unilaterale dall’euro aggraverebbe solo la situazione.
Secondo l’economista Engelbert Stockhammer, dell’Università del Massachusset, la crescita dei paesi “export driven” fortemente mercantilistici, come la Germania, è fondata sull’aumento del deficit e della fragilità dei paesi a crescita “debt driven consumption”. Ha inoltre sottolineato che anche l’attuale declino della forza organizzativa dei sindacati ha avuto un effetto pesantemente negativo sulla crescita economica globale.
Continuare sulla strada attuale ci porta al disastro, scatenando populismi xenofobi e guerra valutarie, economiche e per il controllo delle materie prime: come ha detto giustamente papa Bergoglio, è già oggi in atto una “guerra mondiale strisciante”, con attori inediti. Occorrerebbe dunque cambiare politica, realizzando rapidamente un coordinamento internazionale di politiche espansive. Cosa non facile, perché ciò è realizzabile solo cambiando la cultura economica tedesca, profondamente radicata non solo nelle istituzioni ma anche nella stessa opinione pubblica. Nell’Unione europea occorrerebbe inoltre cambiare i Trattati, ma ciò esige una unanimità che è oggi assai difficile da raggiungere. Ma è l’argomento centrale da porre all’ordine del giorno di una sinistra politica europea e mondiale ormai intrisa di neoliberismo e di sindacati fortemente indeboliti, se vogliono trovare una nuova energia proponendo una propria strategia economica e di riunificazione sociale oggi assente.Milano, 22 maggio 2015
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Saccoman-Austerita-Fluttuazioni-DossierUnico
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