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La de-democratizzazione dell’Europa, e la questione tedesca

di Maria C. Fogliaro

Uno

Cresce un sentimento antieuropeo. Di esso si nutrono i movimenti euroscettici e i partiti antieuropeistici, affermatisi in molti Stati membri come risposta semplificata e, fino ad oggi, ineffettuale alla crisi economica, all’erosione del modello sociale e alla debolezza della crescita nel Vecchio continente. Nel corso dell’ultimo decennio, proprio a causa della crisi multiforme che vive l’Europa, il sostegno dell’opinione pubblica al progetto di integrazione europea si è notevolmente affievolito. Oggi, però, la violenza punitiva – entrata in scena tra il 12 e il 13 luglio scorso, nell’ultima fase del round negoziale tra il Primo ministro greco, Alexis Tsipras, e gli altri 18 capi di governo dell’euro, riuniti per decidere sul terzo programma di assistenza alla Grecia – ha percettibilmente aggravato la crisi di legittimità dell’Unione, accentuando le crepe già vistose nell’edificio europeo.

Implacabili come la Nemesi, i partner dell’eurozona – per far partire il nuovo programma di salvataggio, che prevede un prestito di 86 miliardi di euro circa in tre anni dal fondo salva-Stati, e in cambio di una timida apertura sulla possibilità di una ristrutturazione del debito – hanno imposto ad Atene misure draconiane, da approvare in tempi strettissimi. Tra le «riforme strutturali» il punto di maggiore scontro ha toccato l’imponente programma di privatizzazioni, per realizzare il quale dovrà essere costituito un fondo da 50 miliardi di euro, che – contrariamente ai desiderata tedeschi – avrà sede legale ad Atene, e sarà gestito dalle autorità greche, sotto la stretta sorveglianza delle istituzioni europee. Tenuto conto che – come ha affermato il FMI (Fondo Monetario Internazionale), e quindi, indirettamente, gli Stati Uniti, le cui pressioni sono state determinanti nel fallimento del piano per l’uscita temporanea di Atene dall’euro (Grexit) preparato da Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco – la Grecia non è in grado di sostenere, senza un taglio consistente, il peso di un debito pubblico in aumento e che difficilmente riuscirà a mettere insieme i 50 miliardi di euro di garanzia per il fondo, il popolo greco è stato de facto espropriato di gran parte della propria sovranità: tutte le future riforme del Paese – alla cui attuazione è condizionato l’effettivo esborso degli aiuti – saranno concordate con le istituzioni internazionali e la troika tornerà ad Atene.

Con la crisi greca la storia dell’Unione è giunta a una svolta decisiva, e numerosi sono gli interrogativi e i nodi da sciogliere. In primo luogo, il perentorio ultimatum al governo di Atene – accettato da Tsipras, contro le proprie convinzioni più profonde, per dare respiro immediato al Paese, in asfissia finanziaria per le decisioni, tutt’altro che neutrali, della BCE – suggerisce, innanzitutto, che le forze che governano l’Europa (soprattutto l’establishment tedesco) non hanno mai avuto la reale intenzione di arrivare a un compromesso e che il loro vero obiettivo è il cambio di governo in Grecia, secondo il medesimo copione dell’autunno del 2011, quando due governi democraticamente eletti – quello di Papandreu in Grecia e quello di Berlusconi in Italia – furono costretti a dimettersi per le pressioni internazionali. Allo stesso modo, le vicende di queste ultime settimane e soprattutto le reazioni aggressive suscitate dalla decisione del Primo ministro greco di indire il referendum contro l’austerity, chiamando il popolo – cioè il titolare originario del potere sovrano, fondamento ultimo della legittimità politica dei governi – a decidere sulla propria politica economica, sono una preoccupante conferma della tendenza alla sospensione delle procedure democratiche in Europa.

In secondo luogo, a Bruxelles, nell’ultimo summit ad altissima tensione, c’è stata una franca chiarificazione sulla realtà dei rapporti di forza all’interno dell’Unione, con un’energica esibizione di egemonia da parte della Germania e dei suoi satelliti. Sono così venute alla luce le drammatiche divisioni e le incongruenze interne alla costruzione europea, nella quale il Paese più forte tende a sovrapporre la propria volontà a quella di tutti, dettando regole, stabilendo gerarchie, imponendo la propria narrazione e il proprio linguaggio, come indica chiaramente la velenosa distinzione tra «nazioni creditrici» e «nazioni debitrici».

Guardando ancora alla vicenda greca, vediamo emergere un’altra grave questione: l’estrema debolezza della socialdemocrazia europea. Questa, all’ultimo summit di Bruxelles, si è divisa, secondo linee di frattura nazionali, sulla questione fondamentale della permanenza della Grecia nell’euro: fortemente voluta dal gruppo nordico con a capo la Germania (con l’aggiunta della Slovenia e di Malta), la Grexit è stata evitata anche grazie allo sforzo di mediazione del Presidente francese Hollande, appoggiato dall’Italia.

Ma l’aspetto più drammatico è che, nonostante i catastrofici fallimenti, le ricette neoliberiste e ordoliberali continuano a essere imposte non soltanto con l’adesione entusiastica delle forze conservatrici, ma anche con l’appoggio attivo dei partiti di centrosinistra di tutta Europa, che hanno abbracciato con convinzione la doxa neoliberale, smarrendo così le proprie ragioni di fondo. È, infatti, diventato luogo comune, soprattutto fra le forze di centrosinistra, che i tedeschi siano riusciti ad affrontare senza troppe difficoltà la crisi grazie al loro modello di economia altamente competitivo, frutto delle riforme del mercato del lavoro attuate fra il 2003 e il 2005 e ispirate al piano Hartz. E questo ha prodotto l’idea che è necessario trasferire la lezione tedesca al resto d’Europa. Nella realtà, però, le riforme imposte hanno portato al collasso l’economia greca e hanno dimostrato che il modello tedesco non è replicabile fuori dai suoi confini, essendo frutto non tanto delle riforme volute da Schröder, ma della peculiarità della storia tedesca recente e del modo con cui Berlino ha usato l’Europa per costruire la propria potenza – disattendendo, secondo la propria utilità, i parametri europei e beneficiando di una valuta, l’euro, congegnata esattamente come il marco –.

Ora, alla luce del quadro tracciato, possiamo dirlo: grazie al coraggio del popolo greco e alla dignità del suo Primo ministro – che dopo questa vicenda si afferma come vero leader nazionale, in senso gramsciano – è finalmente chiaro che l’energia politica che ha dato origine alla costruzione europea si è esaurita. E gli Stati dell’Unione rischiano oggi di retrocedere a un passato predemocratico che sembrava sepolto per sempre, non soltanto perché in Europa un Paese si impone egemonicamente sugli altri, ma per l’evidente svuotamento dei processi democratici all’interno dei singoli Stati. Perché l’Europa solidale, democratica e aperta al mondo non rimanga soltanto un sogno è necessaria una vera politica di sinistra, energica, padrona di sé e delle proprie decisioni, che rivendichi il potere di orientare e governare l’esistente seguendo la propria visione, e che questa sia radicalmente alternativa a quella oggi dominante. I greci hanno aperto la strada.

Bologna, 19 luglio 2015

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