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Paura reverenza terrore. Carlo Ginzburg presenta a Bologna il suo ultimo libro

di Maria C. Fogliaro

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Gli scritti, densi e suggestivi, che danno forma all’ultimo libro di Carlo Ginzburg, Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica (Adelphi, 2015) – e che inaugurano la collana «Imago» della casa editrice milanese – invitano a riflettere, andando oltre gli steccati disciplinari, ma con lo sguardo sempre attento dello storico, sulla stretta connessione fra arte, politica e religione, e, in particolare, sull’intreccio, non sempre di immediata percezione, fra immagini e politica. Il libro è stato presentato a Bologna dall’Autore, in dialogo con Simona Cerutti (storica dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi), il 24 settembre, nella Sala dello Stabat Mater all’Archiginnasio, nell’ambito della rassegna «Le voci dei libri», organizzata dalla Biblioteca dell’Archiginnasio in collaborazione con le Librerie COOP e con la Scuola di Teatro di Bologna «Alessandra Galante Garrone».

Questi saggi, che analizzano opere e temi molto diversi fra loro, sono, per l’Autore, da intendersi come degli «esperimenti» e devono essere letti come un tentativo di «elaborare una critica dei linguaggi della politica, e delle sue immagini», dal quale scaturisce una lettura originale, con tratti di insospettata profondità, del passato e del presente. Carlo Ginzburg parte dalla nozione di Pathosformeln (formule di pathos) proposta da Aby Warburg, uno strumento teorico-concettuale che gli consente di andare oltre il messaggio esplicito veicolato dalle immagini e di comprendere – attraverso ambivalenze, rovesciamenti di senso e somiglianze morfologiche – «le radici antiche di immagini moderne, e il modo in cui quelle radici sono state rielaborate». Come nell’analisi – affrontata nel primo dei saggi che compongono il volume – della coppa in argento dorato conservata nella Schatzkammer della Residenz di Monaco, nella quale lo shock culturale rappresentato dalla scoperta del Nuovo Mondo fu mitigato dal ricorso – da parte dell’ignoto argentiere che realizzò ad Anversa, nella prima metà del Cinquecento, il prezioso oggetto – a immagini mutuate dall’antichità classica e trasmesse dal Rinascimento italiano.

Nel saggio su Hobbes l’Autore si confronta con l’importanza della paura nella costruzione politica hobbesiana e con il tema della secolarizzazione, della quale coglie uno degli aspetti nodali – che Ginzburg interpreta come una sorta di “invasione di campo” della politica nei confronti della religione –: ovvero la dipendenza storica dei concetti politici moderni da quelli teologici. Nell’esaminare il frontespizio del Leviatano l’intellettuale torinese suggerisce l’ipotesi che a ispirare a Hobbes l’immagine del «Dio mortale» potrebbe essere stata una frase di Tacito, riportata negli Annales: fingunt simul creduntque («credono in ciò che hanno appena immaginato»). Egli trova, inoltre, un’analogia fra lo stato di natura hobbesiano e la descrizione della peste ad Atene del 429 a.C., narrata da Tucidide nella Guerra del Peloponneso. Il rapporto ineludibile fra politica e religione torna nel saggio dedicato al dipinto di Jacques-Louis David Marat all’ultimo respiro, per Ginzburg un vero «atto politico», nel quale si intrecciano, all’interno dell’iconografia giacobina, attraverso passaggi complessi e una pluralità di cronologie, visioni classiche e virtù cristiane.

Negli ultimi due ricchissimi saggi, dedicati rispettivamente al manifesto del 1914 di Lord Kitchner – ritratto nel suo famoso appello alle armi alla gioventù inglese –, e all’analisi di Guernica di Picasso, il richiamo all’antichità classica contribuisce a spiegare la portentosa efficacia delle due rappresentazioni. Nell’immagine di Lord Kitchner, che punta un dito enorme verso lo spettatore ed esclama Britons. Join Your Country’s Army!, Ginzburg ritrova, come origine, non come trasmissione diretta, l’eco di un passo di Plinio che descrive un quadro perduto di Apelle che ritrae Alessandro Magno col fulmine in pugno, che sembrava balzare fuori dal quadro, e, allo stesso tempo, percepisce l’immagine di Minerva – anch’essa riportata da Plinio – «che guardava sempre l’osservatore da qualsiasi direzione lui la osservasse». Similmente Guernica – secondo Ginzburg – mostra, nella sua «violenta giustapposizione di antico e contemporaneo» e attraverso una serie di trasmissioni, quanto complessa e stratificata sia, in realtà, la cronologia nella quale viviamo. Anche in questo dipinto, simbolo dell’opposizione alla guerra moderna e al totalitarismo, riecheggia, secondo Ginzburg (che segue in questo Otto J. Brendel), un modello classico: la donna che tiene la lampada somiglia a una maschera della tragedia. Parallelamente e, anche qui, in mancanza di derivazioni dirette, lo storico torinese arriva a individuare una forte vicinanza dell’opera di Picasso con La morte di Caio Gracco di Topino-Lebrum, esposta al Salone di Parigi del 1798.

L’indagine, ricca di suggestioni e di sorprendenti intuizioni, avviata da Ginzburg in questo suo ultimo libro, dà conto della relazione storica e del rapporto solido e indistruttibile fra immagini e politica. Ben prima che fosse teorizzata l’idea della politica come immagine, ogni epoca – ci ha mostrato efficacemente Ginzburg – ha prodotto le sue figure politiche. A questo punto, quindi, c’è da chiedersi: che figure produce la politica oggi? Qual è l’iconografia politica della nostra epoca? È del tutto effimera e contingente o invece riesce a produrre forme che avranno senso anche allo sguardo degli storici del futuro?

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