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di Maria C. Fogliaro
«Quando mi è stato chiesto che cosa era il coraggio, io ho risposto con una battuta: la stoltezza».
Le parole di Armin Theophil Wegner (1886-1978), riportate da Gabriele Nissim nella parte finale del suo ultimo libro, La lettera a Hitler. Storia di Armin T. Wegner, combattente solitario contro i genocidi del Novecento (Mondadori, 2015) , danno il tono della vicenda di un uomo che per tutta la vita, fra laceranti contraddizioni, è stato un cercatore impavido di senso e di etica. Testimone eccezionale, mai neutrale, di due delle più grandi tragedie del Novecento, Armin Wegner ha attraversato «il male per poterlo raccontare»: ha fornito un contributo fondamentale, con centinaia di fotografie da lui stesso realizzate a costo di enormi rischi, alla conoscenza del genocidio degli armeni, pianificato e compiuto fra il 1915 e il 1916 dal Comitato Unione e Progresso, espressione del movimento dei Giovani Turchi, al potere nell’Impero ottomano dal 1908; ed è stato l’unico tedesco che ha osato scrivere, nella Pasqua del 1933, una lettera aperta a Hitler, protestando contro la politica antisemita perseguita dal regime nazionalsocialista.
Della vicenda singolare, e poco nota, di questo rampollo di un’antica famiglia prussiana, narra il romanzo biografico scritto da Nissim, che ha il merito di riportare alla memoria la storia di un grande testimone del Novecento, che seppe scegliere e non si piegò all’orrore quando se lo trovò di fronte. E di quest’ultimo lavoro di Gabriele Nissim si è parlato, il 9 settembre scorso, a Bologna nell’ambito di un incontro organizzato dalla Libreria Zanichelli in collaborazione con «Casa dei pensieri 2015», al quale hanno partecipato, insieme all’autore, Luciano Casali (storico), Giuseppe Giliberti (giurista) e Davide Ferrari (fondatore della «Casa dei pensieri»).
Il dato di partenza del racconto è offerto dall’incontro a Roma, nel 1965, fra Johanna Wernicke-Rothmayer – una studentessa tedesca, trasformata da Nissim nella voce narrante del testo – e un vecchio poeta tedesco, in cerca di un’assistente-dattilografa. Nasce di qui la progressiva scoperta da parte di Johanna di un uomo singolare e misterioso, che un giorno la sorprende: le chiede di ribattere a macchina una lettera che aveva scritto, nel 1933, a Adolf Hitler. Vengono così poste le basi per una collaborazione che, a partire dal 1976, impegnerà Johanna per tutta la vita e che farà conoscere al mondo la storia di Armin Wegner.
Educato dal padre alla ferrea disciplina prussiana, Armin giunse in Anatolia come ufficiale paramedico dell’esercito tedesco, al seguito del feldmaresciallo von der Goltz, nel corso della Prima guerra mondiale. Attraversando l’Anatolia, la Mesopotamia e la Siria, si imbatté nelle sinistre carovane di armeni che, dalla Cilicia e dalla penisola anatolica, furono costrette a spostarsi verso il centro del deserto, in un luogo chiamato Deir el-Zor, durante quello che è stato efficacemente definito «un viaggio verso il nulla». Wegner raccolse e scrisse lettere e appelli, documentò fotograficamente il genocidio e, una volta rientrato in Germania, continuò – nonostante gli sia stata rinfacciata come tardiva questa sua presa di posizione pubblica e anche sia stato biasimato per l’ammirazione verso l’azione modernizzatrice dei Giovani Turchi – un’attività di aperta denuncia delle persecuzioni degli armeni da parte del governo turco, con il silenzio complice dell’esercito tedesco. Testimone oculare di quei massacri, Armin tenne numerose conferenze in tutta la Germania portando con sé centinaia di diapositive e, nel 1919, scrisse una lettera-appello al presidente americano Woodrow Wilson, nella quale distinse chiaramente – pur non ricorrendo all’uso della parola – il genocidio degli armeni da tutti gli altri massacri compiuti nel corso della guerra, e chiese un impegno concreto a favore della creazione di uno Stato armeno.
Impregnato dell’idea, tutta interna alla cultura illuministica tedesca, che la formazione dell’individuo (Bildung) sia il momento indispensabile di una vera emancipazione dell’uomo e della società, Wegner intese il suo mestiere di scrittore come una missione pedagogica, sentendo profondamente la responsabilità di fare testimonianza e cercando un continuo dialogo con i propri lettori. Memore dell’esperienza vissuta in Anatolia vent’anni prima e spinto a una meditazione profonda dalla sensibilità della moglie, Lola Landau (una poetessa ebrea che il nazismo spingerà ad abbracciare il sionismo), e della figlia Sibylle, egli intuì molto presto il disastro che si preparava per gli ebrei, e l’onta che sarebbe ricaduta sulla Germania. Scrisse così la lettera al «Führer della nazione ridestata», estremo tentativo di salvare non soltanto gli ebrei, ma il destino della sua patria. Pagò questa decisione con la tortura e con l’internamento in un campo di concentramento, e, infine, con il ritiro tra il 1937 e il 1938 in Italia, dove visse sempre come un esule, lontano dalla Germania, fino alla morte.
Assetato di fama e di gloria; insofferente alle ingiustizie e, per questo, facile preda di grandi illusioni; determinato a inseguire qualsiasi promessa di portare il cielo sulla terra, a entrare in crisi e a cambiare idea, avendo spesso intuizioni fulminanti; «stolto», perché solo gli stolti hanno «fede e fiducia nel mondo e negli uomini», Armin Wegner fu – nel ritratto che ci consegna Nissim – soprattutto un tedesco, fiero di esserlo, che non smise mai di esserlo, e che – sia pure nel travaglio di un difficile processo di autocostruzione, in un tempo ostile all’uomo – amò profondamente la sua patria, e che mai tollerò l’oltraggio arrecatole dai suoi stessi figli. È la via che lo portò, alla fine della Seconda guerra mondiale, a ragionare sul rapporto tra carnefici e vittime, e a insistere sulla questione della colpa – sulla punizione divina capitata in sorte alla Germania e ricaduta su tutti –. Eppure, nonostante lo scoramento, Armin comprese l’efficacia dell’azione individuale nei confronti del Male e intuì – fra i primi – che le «azioni degli uomini giusti hanno un grande peso sulla condizione umana». Ricordato come «giusto tra le nazioni» nel memoriale dello Yad Vashem a Gerusalemme e anche nel «Giardino dei giusti per gli armeni» a Yerevan, Armin Wegner rappresenta una figura di altissimo valore civile, che – è l’auspicio di Nissim e il nostro – dovrebbe, per la portata della propria testimonianza, entrare a far parte della nostra memoria collettiva.