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di Amina Crisma
E’ una storia vera? di Pier Cesare Bori, che viene oggi ripubblicato, ripropone all’attenzione un problema cruciale – il rapporto fra religione monoteistica e dimensione storica – e insieme offre una rinnovata occasione per ripensare, a tre anni dalla morte, la fertile lezione del suo autore, “viandante di crinali” appassionato e rigoroso, l’inesausta tensione che animava la sua ricerca, le sollecitazioni che essa ci consegna.
A tre anni dalla scomparsa di Pier Cesare Bori, morto di mesotelioma da amianto il 4 novembre 2012, viene ripubblicato, a cura di Gianmaria Zamagni che ne è stato allievo ed amico, un suo saggio risalente agli anni Novanta, È una storia vera? Le tesi storiche dell’Uomo Mosè e la religione monoteistica di Sigmund Freud (Castelvecchi 2015). Era stato presentato in un convegno internazionale a Napoli nel gennaio ‘94, e poi raccolto in volume nel ‘97 (a cura di A. Vitolo, Radici della cultura laica, Borla, Roma).
Le sue brevi e intense pagine ripropongo all’attenzione un problema cruciale – il rapporto fra la religione monoteistica e la dimensione storica in cui essa si è originata – e insieme offrono una rinnovata occasione di confronto con lo straordinario percorso di ricerca del loro autore, esploratore appassionato e rigoroso di testi provenienti da orizzonti culturali diversi, e con la singolarità del suo stile intellettuale, lucidissimo e insieme animato da un’inestinguibile tensione. Ne è attestazione tutta la sua opera, dei cui orientamenti essenziali ho tentato di offrire una sintesi in “Il silenzio e le parole, in memoria di PierCesare Bori” (Cosmopolis, dicembre 2012, e Inchiesta, 42,178/2012, www.inchiestaonline), e ne sono eloquenti testimonianze le recenti riproposizioni di suoi scritti, come La tragedia del potere. Dostoevskij e il Grande Inquisitore, (EDB 2015) e Il dialogo al pozzo. Gesù e la samaritana secondo Tolstoj (2014, tratto dal volume In spirito e verità, EDB 1994).
Di tale vasto percorso di studi e di meditazioni, che spaziavano dalla Bibbia al Corano, da Tolstoj al Laozi, da Simone Weil a Jan Assmann, da Pico della Mirandola a Ibn Tufayl, il lettore può farsi una sintetica idea attraverso due libri di Bori che in due momenti diversi ne hanno tracciato il bilancio: lo splendido Incipit, cinquant’anni, cinquanta libri (Marietti 2005), sintesi folgorante delle sue letture dal 1953 al 2003, e CV 1937-2012 (Il Mulino 2012), che è una sorta di testamento spirituale, drammatico e al tempo stesso incredibilmente sereno, scritto nei mesi precedenti la sua morte, con la lucida coscienza dell’approssimarsi della fine.
In tale vasto percorso, l’incontro con L’uomo Mosé e la religione monoteistica di Freud, avvenuto negli anni Settanta, ha occupato un posto speciale. Alle sue tesi Bori ha dedicato molta attenzione: ha fra l’altro lavorato a Londra sui manoscritti che gli ha messo a disposizione Anna Freud, ne ha progettato un’edizione critica e ne ha promosso la traduzione (Bollati Boringhieri 1977). Delle motivazioni di questo speciale interesse, così egli parla in alcune pagine di Incipit (p.108-111):
“In questo libro singolare, Freud compie un atto di disaffiliazione/riappropriazione del giudaismo. Disaffiliazione, perché Mosé è, secondo lui, un egizio che trasmette agli ebrei la religione monoteistica del faraone Amenhotep IV – Akhenaton (…). Riappropriazione, perché proprio con questa operazione Freud recupera il contenuto etico universalistico contenuto nel profetismo ebraico. (…) Nel corso di questo lavoro, mi resi conto che le tesi di questo ultimo libro di Freud andavano seriamente soppesate nella loro pretesa di verità “materiale””.
E così conclude: “Le tesi storiche di Freud sono state contestate (…) e si è negato anche che vi fosse in lui volontà alcuna di quella disaffiliazione di cui dicevo. (…), ma io ho sentito simpatia per la scelta universalistica nell’interpretazione della figura di Mosé, erede di una grande civiltà che viene affidata a un piccolo popolo, piuttosto che origine assoluta di un particolarismo etico. In questa direzione era anche il mio modo (il modo teologico-liberale) di apprezzare il cristianesimo”.
Queste pagine permettono in qualche misura di evocare il metodo di studio di Bori e le sue peculiari propensioni, in cui si univano e si conciliavano aspetti che generalmente tendiamo a contrapporre: il rigore del filologo nel serio confronto con i testi e l’apertura dell’interpretazione, la raffinatezza intellettuale e la semplicità (una semplicità “difficile a farsi”), la laicità dell’atteggiamento critico e la religiosità di una concezione della lettura come “nutrimento spirituale”.
Quest’originale orientamento, oltre che dar luogo a una raffinata esegesi su testi e temi diversi, si è concretizzata in pratiche ed esperienze condivise che Bori ha promosso, come quella realizzata dal gruppo “Una via”, collettivo in cui si leggevano insieme i grandi testi di diverse tradizioni, d’Oriente e d’Occidente, e che continua tuttora con i detenuti del carcere della Dozza di Bologna (si veda in proposito P.C. Bori, Lampada a se stessi. Letture fra università e carcere, Marietti 2008). Di tale suo magistero è, fra l’altro, dichiaratamente debitrice la lettura di un antico classico taoista di recente riscoperto da me offerta in un libro che esce ora, Neiye, il Tao dell’armonia interiore (Garzanti 2015) e che ho dedicato alla sua memoria di “viandante di crinali, dove molti sentieri convergono in una via”.
Sono più che mai convinta che quel particolare stile di pensiero che muove non dalle roboanti astrazioni predilette da tanta chiacchiera dominante dalla quale oggi siamo troppo spesso soverchiati, ma dall’indagine attenta e rigorosa dei testi di cui egli è stato interprete esemplare possa offrire molte fertili risorse a tutti coloro che sono interessati a preservare e allargare, come irrinunciabili spazi di umana communio, gli ambiti di una ricerca comune, di una conversazione larga e condivisa.
Amina Crisma