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di Maria C. Fogliaro
Su una bianchissima pista da sci, una donna respira profondamente − quasi a volersi liberare da un fardello che porta nel cuore −, e poi inizia la sua discesa a valle. Immediatamente dopo, con un cambio di scena, la stessa donna è in un centro di riabilitazione: ha il ginocchio fratturato. Si chiama Marie-Antoniette Jézéquel (Emanuelle Bercot), ma è conosciuta da tutti con un nome da uomo − Tony −.
Protagonista di Mon Roi – Il mio Re (Mon Roi, Francia, 2015, 124’), Tony ha appena avuto un incidente in montagna. Ma, da un colloquio che la donna ha con la psicologa della clinica in cui è ricoverata, intuiamo che il trauma dal quale dovrà guarire non è solo fisico, e che quindi la frattura al ginocchio potrebbe essere la metafora di un malessere più profondo. Infatti, mentre la psicologa le parla, nella testa di Tony cominciano a riaffiorare i ricordi di un incontro lontano, scanditi dai suoni cupi e onirici di Easy (2013) di Son Lux, che accompagnano lo spettatore dentro la biografia di questa donna.
In un locale affollato, in una notte ormai lontana, Tony incontra Georgio Milevski (Vincent Cassel), un uomo dal fascino intrigante, che la donna − da come si comporta − sembra aver già conosciuto. Ma Georgio non ricorda niente di lei, neppure il suo volto. Dopo quella notte i due iniziano una relazione intensa e burrascosa, che durerà dieci anni: si sposano e hanno un figlio nel giro di poco tempo, ma la scossa elettrica che di solito accende le storie d’amore importanti non è mai − nel loro caso − bilanciata dal senso di pace che un’unione profonda con l’altro porta necessariamente con sé.
Tony è (apparentemente) una donna realizzata: ha un buon lavoro (fa l’avvocato), degli amici e una famiglia che la ama. Ma è, in realtà, sentimentalmente infelice (porta ancora i segni di un matrimonio precedente) −, e dà allo spettatore l’impressione di non aver mai pienamente vissuto fino all’incontro con Georgio, che diventa così l’occasione che apre la realtà ordinaria di Tony all’imprevedibilità e alla magia di una vita vissuta e intensamente consumata nell’attimo. Tony fa di Georgio il centro della propria vita: lo segue nelle sue passioni, nelle serate con i suoi amici, lo sostiene − suo malgrado − nel malsano rapporto che ha con la sua ex fidanzata, e soprattutto è pronta a dare al suo Re tutto quello che le chiede, anche un figlio. Ma quando lui − fedele a se stesso e alla propria natura − viene meno alle responsabilità che attendono un marito, Tony, nonostante sia incinta (o forse anche per quello), precipita nell’infelicità: senza Georgio è sola, priva di orientamento, destinata, forse, a una fine tragica − come quando, disperata, rivolge la propria collera contro se stessa −, se non avesse avuto accanto Solal (Louis Garrel), il suo affettuoso e premuroso fratello.
Diretto da Maïwenn Le Besco − e scritto insieme a Etienne Comar −, Mon Roi è un film psicologico, e questa sua proprietà determina tutta l’evoluzione del racconto cinematografico. Che non si sviluppa secondo la naturale successione dei fatti, ma attraverso flashback, che, abilmente intrecciati, tengono insieme i due differenti (ma intimamente legati) livelli narrativi: gli episodi che vedono Tony impegnata nel recupero del proprio ginocchio; e il viaggio nella memoria per rimettere insieme i cocci di una vita spezzata e guarire così le ferite profonde della sua anima.
Maïwenn ha impostato il film sull’interpretazione di una bravissima Emanuelle Bercot, spogliandone la biografia del dolciastro e del vittimismo che spesso tendono ad assumere i racconti d’amore narrati dal punto di vista delle donne, e facendo di Tony una figura umana che osserva molto, parla poco, indifesa nel suo darsi all’amore e alla crudeltà di Georgio. L’altra grande meraviglia del film è Vincent Cassel, che dà vita a un personaggio audace e dinamico, dalle identità molteplici. Un novello Zeus capace di amare, ma solo a suo modo: emotivamente immaturo, per nulla empatico, concentrato su se stesso e sui propri bisogni, Georgio è anche capace di slanci intensi che invitano l’anima a volare − quanta verità nelle sue parole quando, con una spontaneità disarmante, chiede: «Perché vuoi che io sia come vuoi tu, quando sei venuta da me perché sono esattamente come sono?» −.
Mon Roi racconta la storia di un’iniziazione, di un processo di guarigione dal quale − passando per la delusione e il dolore (che inevitabilmente nascono dal divario fra aspettative e realtà) − Tony riemergerà come una donna nuova, certa e «una-in-sé-stessa» (per usare l’espressione di Esther Harding). I movimenti finali della macchina da presa seguono (con intensi primi piani) lo sguardo della protagonista, insistendo efficacemente su particolari del volto di Georgio: è il momento in cui Tony prende consapevolezza, e si libera, vedendo per la prima volta l’uomo che ha amato (e che forse ancora ama) per quello che è, per quello che è stato, e non per quello che avrebbe voluto che fosse.