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di Maria C. Fogliaro
È il 1995. «Da qualche parte nei Balcani» − tra il finire della guerra, esplosa nel 1991, e l’implementazione degli accordi di pace − una spedizione di soccorso umanitario, denominata «Assistenza senza frontiere», è impegnata nella bonifica di un pozzo, al cui interno è stato abbandonato un corpulento cadavere. Mambrù (Benicio Del Toro), responsabile sicurezza della spedizione, e B (Tim Robbins) − operatore umanitario di lunga esperienza − stanno cercando di tirarlo fuori con l’aiuto di mezzi di fortuna, ma la corda che stanno usando per issare il cadavere improvvisamente si spezza. Devono trovarne un’altra, e in fretta. Secondo Sophie (Melanie Thierry) − responsabile della sezione «Acqua e salute» della missione, alla sua prima esperienza sul campo − il rischio di contaminazione di quella che è l’unica riserva d’acqua della zona è molto alto, e il cadavere deve essere rimosso entro ventiquattro ore, al massimo. Ma c’è la guerra, tutti diffidano di tutti, e trovare una corda diventa un affare complicato.
Accompagnati da Damir (Fedja štukan) − l’interprete locale −, da Katya (Olga Kurylenko) − una collega russa, che è stata l’amante di Mambrù e che è arrivata sul posto per fare una valutazione sulla missione e decidere la possibilità (molto concreta) di annullarla −, e da Nikola (Eldar Residovic), un bambino del luogo che la guerra ha separato dai genitori e che ora vive col nonno nel villaggio adiacente al pozzo, gli operatori umanitari partono sui loro due fuoristrada alla ricerca di una corda, dando vita a una storia ai confini della realtà.
Perfect Day (A Perfect Day, Spagna, 2015, 105’) − del regista spagnolo Fernando León de Aranoa e film rivelazione a Cannes della Quinzaine des Réalisateurs nel 2015 − parla, da una nuova prospettiva, della guerra che − soprattutto a causa di un nazionalismo violento ed esasperato − è esplosa nella penisola balcanica tra il 1991 e il 1995, causando la dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, che era riuscita a garantire per quasi mezzo secolo a tutti i popoli jugoslavi (comprese le minoranze nazionali) autonomia decisionale e rappresentanza istituzionale. A differenza di altri film apparsi negli anni Novanta del secolo scorso − come Prima della pioggia (1994), Lo sguardo di Ulisse (1995) o Underground (1995) − che affrontavano la tragedia nei Balcani partendo dalle sue origini, Perfect Day, invece, è un tentativo di raccontare − con ironia e, per quanto possibile, con leggerezza − la guerra partendo dalla fine, dal disordine fisico e morale che il conflitto porta con sé, dalle macerie e dalle ferite ancora aperte.
Al centro del film, in prima battuta e come conferma l’uso frequente del medio piano nelle inquadrature, ci sono i componenti della spedizione umanitaria: Mambrù, un portoricano stanco della guerra, che − pur credendo nell’importanza della missione − non vede l’ora di tornare a casa dalla sua compagna, ma ha ancora delle questioni da risolvere con Katya, che non gli perdona di averla lasciata; B, americano, anticonformista, un uomo che i lunghi anni di guerra hanno reso solo e quasi del tutto privo di freni inibitori; Sophie, francese, giovane e idealista, insofferente alle procedure e alle decisioni − ai suoi occhi irrazionali e indifferenti al benessere della popolazione locale − prese dal comando ONU presente nella regione; Katya, una donna bella e orgogliosa, che, nonostante la fine della loro relazione, è ancora attratta da Mambrù e che, forse, è tornata nei Balcani proprio per incontrarlo. C’è, poi, Damir, un interprete molto particolare, ironico come tutti gli abitanti del luogo, dove, come ama dire con profonda soddisfazione, «i bambini nascono ridendo, non piangendo». E infine c’è Nikola, che sta cercando, ricorrendo a piccoli espedienti, di mettere insieme il denaro necessario per il viaggio alla ricerca dei suoi genitori.
Tuttavia i diversi personaggi non sono mai scrutati dal regista con sguardo introspettivo, ma sembrano in realtà essere lo sfondo, il “paesaggio umano”, dietro il quale si staglia il vero protagonista del film: la terra dilaniata dalla guerra − ferita, impoverita, disseminata di morti e di mine ancora mortali −. Servendosi di dialoghi brillanti, di battute ironiche e piene di doppi sensi, e della colonna sonora firmata da Arnau Bataller (con pezzi degli X e dei Velvet Underground), Aranoa guida lo spettatore lungo vie sterrate e difficilmente accessibili − inquadrate spesso dall’alto, da una prospettiva a volo d’uccello −; lo conduce tra città fantasma, martoriate, dove ancora fresco è l’odore della morte; lo induce ad osservare i volti e gli atteggiamenti delle persone che popolano il territorio − annichilite dalla violenza, concentrate sul presente e sulla loro sopravvivenza −, e lo invita a cogliere tutta l’insensatezza della guerra.
Come in Prima della pioggia anche qui, alla fine, la pioggia arriva davvero, ma − mentre nel film di Manchewski essa veniva ad indicare l’inveramento delle paure più profonde − qui, invece, la pioggia arriva per lavare via tutto, e ridare una nuova speranza per la costruzione di un ordine e di un senso nuovi.