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(dibattito a cura di AMINA CRISMA, in collaborazione con www.inchiestaonline.it )
Prosegue con questo intervento di Guido Samarani, professore di Storia della Cina presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, il dibattito a cura di Amina Crisma sul libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. I precedenti interventi sono nella rubrica di questa rivista “Osservatorio Cina”. Il prossimo intervento sarà di Luigi Moccia.
La pubblicazione del volume di M. Scarpari sul Ritorno a Confucio e la discussione che ne è seguita hanno messo in luce varie questioni di indubbio rilievo, legate a temi nuovi ma anche, in diversi casi, già affrontati negli ultimi anni e anche decenni quali il rapporto tra tradizione/tradizioni e modernità, tra sinicità/sinocentrismo e modernizzazione/occidentalizzazione, tra sviluppo economico e costruzione di nuovi valori, tra armonia e conflitto, ecc. nel percorso storico della Cina da un antico e glorioso passato ad una attualità che la pone sempre più al centro del dibattito politico, economico e culturale globale.
Nelle righe che seguono vorrei aggiungere la mia voce a quanti si sono già espressi, con l’obiettivo di cercare di fornire un contributo su alcuni temi e questioni che mi paiono importanti nell’analisi dello sviluppo e della caratterizzazione della “questione confuciana” tra storia ed attualità.
Una decina di anni fa Jasper Griffin, emerito di letteratura classica ad Oxford, scrivendo per la New York Review of Books (“It’s All Greek!”, 18 dicembre 2003) a proposito del ruolo della civiltà greca nella storia dell’umanità, sottolineava come: “Noi guardiamo alla storia con due obiettivi diversi. Vi è la curiosità verso il passato, verso ciò che è accaduto, verso chi ha fatto che cosa e perché; e vi è la speranza di comprendere il presente, di collocare il nostro presente nel modo appropriato, e di interpretare i nostri tempi, le nostre esperienze e le nostre speranze per il futuro. Il mondo dell’antichità classica è uno dei migliori strumenti che abbiamo per realizzare entrambi gli obiettivi” [traduzione mia].
Credo che in generale queste illuminanti parole possano valere anche per una civiltà, come quella cinese, così diversa da quella greca ma allo stesso tempo così straordinaria nel suo percorso storico. A tal fine, credo sia necessario prestare maggiore attenzione al Novecento, al fine di evitare che il collegamento tra antichità e attualità (tra eredità confuciana e politiche attuali) produca una sorta di immotivato e negativo vuoto storico.[1]
Come sappiamo, un secolo fa (esattamente nel settembre 1915) muoveva i suoi primi passi in Cina la rivista Nuova gioventù (in cinese Xin qingnian), il cui ruolo di rottura radicale ed iconoclasta con la tradizione passata (e quindi con l’eredità confuciana) è noto a molti, tanto che la rivista portava il sottotitolo La Jeunesse a significare la chiara volontà di spezzare (dal punto di vista linguistico, intelletuale e culturale) le catene del passato che – a parere dei fondatori – imprigionavano la Cina. Tuttavia, lo stesso fondatore e anima principale della rivista, Chen Duxiu (1879-1942), il quale traeva molte delle sue ispirazioni dall’esperienza della Rivoluzione francese e che nel 1921 sarebbe diventato il fondatore del Partito comunista cinese (Pcc), accompagnò la sua aspra e spesso devastante critica a Confucio e al confucianesimo[2] con alcune riflessioni diverse: tra queste, il riconoscimento del ruolo storico del confucianesimo nell’affrontare temi importanti relativi alla morale e nel cercare di fornire risposte efficaci ai bisogni spirituali, e la constatazione del fatto che nella plurisecolare storia dell’impero in Cina in molti casi esso era stato utilizzato in via strumentale dal potere autocratico per realizzare i propri egoistici obiettivi. Nel complesso, tuttavia, Chen Duxiu ribadì costantemente un tema che fu in quel periodo e negli anni successivi al centro del pensiero radicale in Cina: il confucianesimo rappresentava un ostacolo di fondo al processo di formazione e sviluppo di una ‘”Cina moderna”.
Negli stessi anni, quando la giovane Repubblica cinese formatasi nel 1912 sulle ceneri dell’Impero muoveva i primi passi, Yuan Shikai (1859-1916) – militare, assertore di un regime centralizzato ed autoritario e che sarebbe diventato il primo Presidente della repubblica – nel momento in cui cercò di porre le basi per la fondazione di una nuova dinastia imperiale dovette cercare di rispondere ad una domanda cruciale: come fondare e giustificare di fronte all’elite (e al popolo, almeno in teoria) la propria scelta? Attraverso il richiamo alla tradizione: Yuan era l’unico, secondo il modello classico imperiale, che poteva per le sue virtù e qualità rappresentare la volontà del Cielo e unire Cielo e Terra; la volontà del ‘popolo’ non andava ignorata ma essa non era oggetto di dibattito pubblico ma era semmai concepita come esigenza da parte del nuovo sovrano di tenere conto in modo paternalistico delle esigenze popolari? Oppure attraverso un approccio più ‘modernizzante’, che tenesse maggiormente conto dei mutamenti storici intervenuti (fine del sistema imperiale, nascita della repubblica, diffusione crescente tra le elite di concetti quali cittadinanza, democrazia, stato-nazione, ecc.): non la negazione, insomma, della validità del sistema repubblicano in sé ma semmai l’affermazione secondo cui esso era prematuro rispetto alla realtà della Cina. Yang Du (1875-1931), che aveva studiato sistemi politici in Giappone ed era uno dei massimi sostenitori di Yuan e dell’esigenza di un sistema monarchico-costituzionale in Cina, affermò che il popolo in Cina era ignorante ed aveva una tradizione di governo autocratico: pertanto, esso era completamente impreparato moralmente ed intellettualmente alle istituzioni democratiche e repubblicane. Dunque, passare bruscamente dal sistema imperiale a quello repubblicano rappresentava, in Cina, un salto nel buio, un balzo in avanti irragionevole ed insostenibile nell’ambito del processo storico: l’esito di tutto ciò, a parere di Yang, sarebbe stato il fallimento totale.
Negli anni Venti il dibattito e lo scontro intellettuali vennero intrecciandosi con i primi passi delle formazioni politiche moderne, in particolare il Partito nazionalista ed il Partito comunista. Nel 1923 il confronto tra le tesi pro-tradizionaliste e pro-confuciane da una parte e quelle anti-tradizionaliste e anti-confuciane dall’altra toccò l’apice con il dibattito tra sostenitori della metafisica e della scienza: da una parte, i primi ribadirono come il confucianesimo (incluso il neo-confucianesimo sviluppatosi a partire dal XII secolo) aveva dato enormi contributi alla creazione di una grande civiltà sprituale offrendo soluzioni ai problemi essenziali della vita ai quali scienza e tecnologia non erano in grado di fornire risposte; dall’altra, i secondi ribadirono che la scienza ha come primo obiettivo la ricerca della verità universale escludendo qualsiasi pregiudizio personale e soggettivo e criticarono con forza le posizioni metafisiche in quanto portatrici di una visione del mondo che andava oltre ogni cognizione umana ed era costruita su vuote affermazioni.
Ma tra i sostenitori di “scienza e democrazia” si aprirono, nel contempo, elementi di diversità e differenziazione: da una parte, vi fu la nascita e sviluppo del “movimento per la totale occidentalizzazione” imperniato sull’idea di un totale abbandono di una cultura tradizionale (e confuciana) vista come emblema di arretratezza e conservazione, in cui confluivano in generale gli intellettuali marxisti e quelli radicali nazionalisti e non-marxisti e che guardavano al rapporto tra stato e cittadino, tra collettività e individualità, nel senso di una supremazia di fondo del primo sul secondo; dall’altra, vi furono coloro che si erano battuti e si battevano contro l’egemonia tradizionale confuciana e che intendevano –come si scrisse allora – “consegnare Confucio alle polveri della storia” ma che cercavano nel contempo (vedi in particolare Hu Shi, 1891-1962) di porre una linea divisoria tra confucianesimo da una parte e tradizione dall’altra, sottolineando la ricchezza nel passato cinese di elementi non-confuciani al fine di contribuire alla formazione di una nuova visione del mondo che non fosse solo ed esclusivamente occidentale; ed infine vi fu anche chi (come Sun Yat-sen, 1866-1925) introdusse nel dibattito forti elementi del pensiero e dell’esperienza occidentali (molte parti dei “Tre Princìpi del Popolo”) mescolandole tuttavia con evidenti influenze tratte dal confucianesimo: ad esempio, elementi del discorso confuciano sulla giustizia sociale, anche se non in termini socialistici ed egualitari, di cui si videro gli effetti parziali, combinati con le teorie di Henry George, sulla sensibilità per la “questione sociale” presente nel principio del “benessere del popolo”. In generale, Sun si differenziava dai radicali iconoclasti quali Chen Duxiu in quanto adottava verso la tradizione culturale cinese e verso il rapporto tra questa e la modernità, verso il nazionalismo moderno una posizione assai più sfumata: infatti, la critica severa verso le concezioni universalistiche dei letterati-funzionari tradizionali si accompagnava in lui al desiderio di aggiornare la classica visione utopica della creazione di un mondo unificato, pacifico ed armonioso, e una certa riconsiderazione di valori morali confuciani quali lealtà e pietà filiale era concepita come un possibile strumento utile per costruire uno stato-nazione ed un nazionalismo che egli concepiva come essenzialmente difensivo e non espansivo.
Più avanti, negli anni Trenta, Chiang Kai-shek cercò di utilizzare elementi misti di modernità e di tradizione ai fini del consolidamento del proprio potere e di forgiare “nuovi cittadini” di una nazione più unita, coesa e disciplinata, dando vita al Movimento Nuova Vita. Si trattò di una campagna avviata sin dal 1934 in cui si mescolavano appelli al “nuovo” e alla “rinascita” (“una nuova coscienza nazionale, una rigenerazione sociale del paese”) e un richiamo a modelli stranieri (fascismo, nazismo, autoritarismi vari) visti come esempi della costruzione di un “moderno cittadino che esprimesse lo spirito di amore e lealtà per la patria”. Tutto ciò mirava a contrastare la realtà di una Cina “caotica, buia e priva di spiritualità” e si accompagnava ad una forte critica dell’iconoclastismo passato, all’idea di una sorta di rigenerazione confuciana (appelli a valori quali giustizia, onestà, senso di autorispetto, ecc; e alla restaurazione del compleanno di Confucio in quanto festività nazionale che aiutassero a combattere il comunismo e a porre le basi per una società caratterizzata da spirito di dedizione e sacrificio.
Nella Cina maoista (1949-1976), al contrario, le basi residue (o presunte tali) del confucianesimo furono sradicate con la presa del potere da parte dei comunisti cinesi e con le due grandi riforme del 1950 (Legge agraria e Legge sul matrimonio) che apparentemente minarono a fondo le basi sociali della famiglia tradizionale e del potere “feudale” nelle campagne. In quei decenni, di fatto, la centralità della lotta contro “l’ideologia borghese” (cioè occidentale) e poi “revisionista” (ossia sovietica a partire dagli anni Sessanta) occuparono in generale l’agenda politico-ideologica relegando in un angolo della storia Confucio e l’ideologia confuciana, se si eccettua il “Movimento contro Lin Biao e Confucio” dei primi anni Settanta. Cionostante, concetti quali “feudalesimo”, “superstizioni feudali”, “eredità feudale” accompagnarono costantemente il dibattito politico-ideologico, a significare il persistere di un’attenzione verso gli aspetti più negativi e caratterizzanti della tradizione, spesso legati al ruolo ed all’influenza dell’ideologia confuciana. Uno degli strumenti di tale lotta alla tradizione fu, come è noto, la storiografia, i cui profondi intrecci con l’ideologia condussero spesso ad utilizzare pienamente simboli del passato quale esempio positivo o negativo per il presente.
Ho voluto in queste righe citare alcuni dei casi più significativi nella storia della Cina del Novecento attraverso i quali – mi pare – si possono individuare, in conclusione, alcune linee di fondo ai fini di una riflessione sulla questione del rapporto tra passato e contemporaneità nell’analisi del “ritorno a Confucio” nella Cina d’oggi. In particolare:
a) In questi ultimi decenni, di fronte alla leadership cinese si sono presentati tre possibili scenari attraverso cui essa ha cercato e sta cercando di affrontare i temi, intrecciati, del boom economico, della crisi delle esperienze socialiste nel mondo in particolare dopo la dissoluzione dell’Urss, e dell’esigenza di dare vita ad una “civiltà spirituale” che accompagni ed integri il progresso materiale del popolo cinese: il primo, la rivitalizzazione dell’ideologia maoista in forme aggiornate (una soluzione, questa, che è stata adombrata in certi momenti ma senza esiti soddisfacenti); la seconda, l’assunzione di valori occidentali quali individualismo, liberalismo, ecc quale perno ideologico-culturale (ma questa è una soluzione costantemente e radicalmente respinta dal Pcc); la terza (quella che si sta cercando di portare avanti con evidente riferimento ad aspetti del confucianesimo), il recupero di valori tradizionali che servano a combattere le influenze occidentali e gli effetti disgreganti delle profonde trasformazioni sociali e di costume prodottesi nonché a fornire, assieme al patriottismo, le basi per una nuova identità che sia allo stesso tempo moderna e rafforzi la coesione sociale e la stabilità politica;
b) Nella nuova attenzione a Confucio ed al confucianesimo (o quantomeno a certi suoi aspetti) oggi in Cina sono certamente presenti elementi vari, che toccano questioni legate alla economia, società, cultura, ideologia, alla vita religiosa e spirituale, ecc. Per vari aspetti, diverse parti della dottrina confuciana non appaiono in grande sintonia con le tendenze ed i bisogni della Cina oggi: basti pensare al tradizionale approccio critico verso il profitto oppure all’enfasi sulla gerarchia più che sull’eguaglianza. Tuttavia, vi sono senza dubbio temi e valori che appaiono molto più in sintonia con le esigenze attuali: un ruolo di riequilibrio rispetto alla nuova enfasi sulla legge e sui diritti; la necessità inderogabile di accompagnare la crescita dello standard di vita con modelli morali e norme comportamentali che risultano spesso ancora insoddisfacenti; l’importanza centrale attribuita all’educazione e al sapere. L’elemento centrale, che maggiormente lega passato ed attualità, appare tuttavia duplice e si lega a quello che è stato definito nell’ambito del dibattito internazionale “political confucianism” (confucianesimo politico): in primo luogo, il dovere del potere di agire con benevolenza verso il popolo anche in assenza di “democrazia” (nel senso occidentale del termine): crudeltà ed oppressione verso il popolo sono alcuni degli atti da condannare che Confucio ebbe a sottolineare, e il suo discepolo Mencio si impegnò in particolare nel mettere in luce l’identità di azione politica e azione morale, il fatto che il governo delle cose e degli uomini doveva essere imperniato sull’esempio da parte del governante e sull’importanza della persuasione come strumento di consenso; infine, l’enfasi su armonia e pace, valori che il governo cinese oggi utilizza ampiamente al fine di cercare di rassicurare il mondo (e in particolare gli stati confinanti) del fatto che la Cina non ha intenzioni aggressive e che non presuppongono l’uniformità: Confucio – si sottolinea – ricordava che un “gentiluomo” si accompagna sempre agli altri ma non necessariamente concorda sempre con le loro idee e convinzioni;
c) Infine, l’importanza di Confucio e del confucianesimo oggi in Cina, la loro rilevanza e l’attenzione con cui sono guardati e proposti dalla leadership cinese, non devono essere considerati come immutabili: valori rivali, in toto o in parte, quali l’individualismo, la globalizzazione, le spinte alla “democratizzazione”, lo stesso “socialismo” benchè “alla cinese” rappresenteranno elementi di possibile competizione. Esso oggi appare innanzitutto uno strumento politico ed ideologico finalizzato a coniugare sviluppo economico e contenimento delle influenze occidentali; allo stesso tempo, tuttavia, la storia insegna che non pochi critici e detrattori del confucianesimo nel corso del Novecento in realtà lo contrastarono e lo combatterono soprattutto in quanto simbolo dello stato di povertà ed umiliazione del popolo cinese, senza per questo ammirare necessariamente la civiltà occidentale.
[1] Sui significati del termine “confucianesimo” si veda il cap. V del volume di Scarpari
[2] Due delle critiche più significative rivolte a Confucio erano: a) di avere dato priorità al “governo degli uomini” rispetto al “governo della legge”, fornendo così una base allo strapotere dell’autocrazia; b) di non avere incoraggiato i propri discepoli a sollevare questioni e problemi, ponendo così le premesse per l’affermazione dell’ortodossia e dell’ostilità del confucianesimo a qualsiasi pensiero indipendente
GUIDO SAMARANI
(dibattito a cura di Amina Crisma )