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di Maria C. Fogliaro
Si apre sulla sala da pranzo di un ristorante, Carol (Gran Bretagna, USA, 2015, 118’). Due donne − una più giovane, l’altra più matura − sono sedute a un tavolo una di fronte all’altra, colte, sembra, dalla macchina da presa in un momento importante. Presto però vengono interrotte dall’arrivo di un uomo, e una delle due donne va via. Subito dopo la scena cambia, e ha inizio il lunghissimo flashback a partire dal quale tutto il film si sviluppa.
La donna più giovane si chiama Therèse Belivet (Rooney Mara) e lavora come commessa al reparto giocattoli dei Magazzini Frankenberg di New York. È lì che − durante le feste di Natale del 1952 − lo sguardo di Therèse incontra quello di Carol Aird (Cate Blanchett), una donna sofisticata dal fascino altero, madre di una bambina e in procinto di divorziare. Dopo quel primo incontro la vita delle due donne non sarà più la stessa.
Ispirato al romanzo di Patricia Highmith The Price of Salt (1952) − più tardi ripubblicato con il titolo di Carol −, l’ultimo film di Todd Haynes e della sceneggiatrice Phyllis Nagy narra l’amore, il suo nascere improvviso da un’attrazione irresistibile, e il suo concretizzarsi in un sentimento travolgente e profondo. Non è però l’amore omosessuale a costituire il cuore della narrazione cinematografica, occupata invece da due temi che scorrono parallelamente e si intrecciano fino alla fine del film. Il primo riguarda la profonda asimmetria e lo squilibrio tra i ruoli sessuali nelle società patriarcali come quella americana all’inizio degli anni Cinquanta, nelle quali le donne − private della loro autonomia e potenza creatrice − venivano «oggettificate» e riconosciute nello spazio sociale solo in quanto «mogli di» o «figlie di» − come emerge chiaramente da uno dei dialoghi fra Carol e suo marito Harge (Kyle Chandler) −.
Il secondo, più profondo, riguarda l’amore stesso in quanto potenza trasformatrice e creatrice per eccellenza, capace di generare vera conoscenza e vera vita. Un’esperienza che va oltre la pulsione puramente sessuale, che risponde a una spinta profonda − psicologica e spirituale −, e che è capace di trasportare l’individuo fuori dall’ordinario, in una dimensione oltre il tempo e lo spazio − come sembra alludere Carol quando si rivolge a Therèse affermando: «Che strana ragazza è lei… Piovuta dallo spazio» −. Una forza che trasforma, insomma, che non lascia le cose come sono, che è capace di portare fuori le ricchezze interiori che l’individuo ha in sé, potenziandolo: questo ci dice Haynes dell’amore.
E, infatti, il sentimento che nasce fra Carol e Therèse − che si esprime nel contatto (come dimenticare la mano di Carol che, in più scene, si poggia sulla spalla della sua amata), nella comprensione empatica, nell’unione delle loro anime − permetterà alle due donne di iniziare un percorso, anche doloroso, di conoscenza vera di sé, sciogliendo i vincoli e i pregiudizi diffusi non solo nella società, ma presenti dentro loro stesse. Nella sua relazione con Carol, Therèse conquisterà la propria sicurezza e autonomia individuale: troncherà la relazione con un fidanzato, Richard Semco (Jake Lacy), che non ha mai veramente amato; si dedicherà, sostenuta da Carol, alla sua vera passione − la fotografia − e inizierà a lavorare al New York Times. Carol, invece, sempre riservata ed educata a non rivelare le proprie emozioni, grazie all’amore per Therèse si aprirà al mondo: sentirà il bisogno, per la prima volta in vita sua, di trovare un lavoro; riuscirà a manifestare le proprie emozioni − piangerà, riderà, parlerà, amerà come non aveva mai fatto prima, neppure con la cara amica e, per un breve periodo, amante Abby (Sarah Paulson) −; comprenderà, infine, che l’amore per sé può stare insieme all’amore che ha per l’adorata figlia.
Carol è un film elegante, pensato e costruito non per parlare del presente, ma per condurre lo spettatore dentro un’epoca precisa e le sue contraddizioni, i primi anni Cinquanta, un’età sospesa fra un mondo che non è più e il nuovo che si affaccia, ma che sembra ancora lontano da venire. Questa finalità si manifesta nelle scelte raffinatissime della fotografia, curata da Edward Lachman, che si è ispirato allo stile fotografico degli anni Cinquanta e che è riuscito a rendere perfettamente le scene girate attraverso i vetri appannati; nei colori “sporchi” − come il verde, il giallo, il rosa cipria − che caratterizzano gli interni di case, locali, alberghi; nella colonna sonora composta da Carter Burwell, che − creando sottofondi perfetti, che vanno dal jazz a temi intimi e ipnotici − consente allo spettatore di immergersi profondamente nell’atmosfera newyorkese dei primi anni Cinquanta; nella recitazione impeccabile di Cate Blanchett e Rooney Mara, che hanno saputo dare vita a due personaggi intensi e drammatici, nelle cui vicende e nelle cui psicologie è fatale che lo spettatore arrivi a identificarsi.
Insomma, un film che senza cedere a facili ammiccamenti sentimentali e a “effettacci” emozionali, è proprio per questo capace di coinvolgere e di commuovere.