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Diario Europeo n. 19
Giovedì e Venerdì prossimi (18 e 19 febbraio) si riunirà il Consiglio Europeo.
Due punti cruciali all’ordine del giorno: Immigrazioni e Regno Unito.
Di immigrazione e Schengen abbiamo lungamente trattato nel precedente “Diario” (n. 18 del 5 febbraio). Affrontiamo ora alcuni aspetti del complicato rapporto tra Unione Europea e Gran Bretagna. Di cosa si tratta? A seguito della discussione già tenuta nel Consiglio europeo del dicembre 2015 sul prossimo (giugno 2016?) referendum circa la permanenza o l’uscita del Regno Unito dall’UE, il Consiglio europeo, su richiesta del primo ministro inglese – David Cameron – si è assunto in gravoso compito di discutere delle relazioni reciproche, con riferimento a quattro ambiti di interesse: competitività, governance economica, sovranità, sicurezza sociale dei cittadini europei residenti nel Regno Unito. A partire dal dicembre 2015, Donald Tusk (presidente del Consiglio Europeo) ha dunque negoziato con il governo inglese intorno ai quattro temi sopra elencati; e Il 2 febbraio scorso 2016 ha reso pubblico una bozza di intesa concernente le quattro problematiche , che potrebbe rappresentare la base di un compromesso tra Gran Bretagna e gli altri i 27 Stati membri. Nella riunione del Consiglio europeo prossimo i capi di stato e di governo dei 28 Paesi membri dovrebbero condividere, dunque, riforme specifiche per consentire al Regno Unito si restare nella UE.
Prima di delineare per sommi capi gli elementi del compromesso, però, è assolutamente indispensabile soffermarsi sugli antefatti, politici e istituzionali.
Gli antefatti politici. Il primo ministro inglese (eletto nel 2010), aveva dovuto registrare nelle elezioni del 2014 per il Parlamento europeo una sonora sconfitta elettorale da parte del partito populista e anti europeo – UKIP ( di cui i lettori e le lettrici conoscono probabilmente il nome del suo esponente, Nigel Farage). Spaventato da questo inatteso (per lui!) successo degli anti-europei e (non bisogna mai dimenticarlo) anche indebolito dal tiepido appoggio europeista del suo stesso partito conservatore, pensò bene (meglio: pensò male) di arginare l’ondata degli antieuropeisti, rincorrendoli sul loro terreno e nel corso della campagna elettorale delle elezioni politiche inglesi del 2015 – annunciò un referendum sulla permanenza o meno della Gran Bretagna nell’Unione europea, da indire entro il 2017.. Ammettendo implicitamente che Nigel Farage e gli anti-europei inglesi avessero una qualche buona ragione, a base della loro opzione strategica: l’uscita dall’Unione. Non ha investito, quindi, nel delineare e approfondire una forte politica europea del suo Paese, evidenziando e sottolineando, ad esempio, i vantaggi per il Regno Unito della partecipazione al Mercato unico europeo. Non ha neppure provato ad aprire un confronto duro e serrato nel suo stesso partito. Né bisogna, poi, dimenticare che la Scozia ( con la quale l’Inghilterra ha, come è noto, vinto per un soffio un referendum indipendentista) è decisamente filoeuropeista. L’antefatto politico, pertanto, evidenzia una assai discutibile – e finora perdente- strategia politica del Governo e della sua maggioranza che non ha non ha mai affrontato – su un terreno solido e ben documentato – lo storico scetticismo britannico, oscillando (ma su questo aspetto non dissimile fu la politica di Blair e del blairismo) tra opportunismo (i noti e indiscutibili vantaggi di partecipare al vasto mercato unico: finanza e servizi) e doppiezze. Non si dimentichi, peraltro, che la Gran Bretagna è fuori dall’Euro e fuori da Schengen; gli inglesi, pertanto, non possono attribuire all’Europa, le responsabilità delle loro difficoltà interne (ad esempio, l’impoverimento delle periferie urbane e il declino dello stato sociale, sul quale da tempo non investe). La piattaforma elaborata dal governo di Cameron e presentata alla Unione, risente con tutta evidenza di questa duplice caratteristica: tirare al massimo la corda per poter arginare le pulsioni anti-europeistiche, ataviche e recenti e, nello steso tempo, non rompere con l’Unione in modo da non perdere i vantaggi della integrazione dei mercati. Né va sottovalutata la circostanza, alquanto antipatica, che nel cosiddetto negoziato su un nuovo quadro di relazioni tra Gran Bretagna e Unione europea, il capo del governo tiene i suoi colleghi membri della UE sotto una sorta di ricatto: se mi fate delle concessioni adeguate io ( con il mio governo) mi schiero per il NO all’uscita dall’Unione, altrimenti, come minimo , resto spettatore passivo. Quante amare lezioni si potrebbero trarre da questa vicenda!
Diario europeo preferisce, invece, analizzare meglio i vari contesti; cominciando con ascoltare la lezione di un “grande un vecchio” della storia della unità europea: Etienne Davignon, ex vicepresidente della Commissione presieduta da J:Delors ed ex capo dello staff di Paul-Henri Spaak, uno dei padri fondatori del Trattato di Roma. Ha detto recentemente in una intervista a “Le Soir”: ”Se certi paesi ritengono di non volere più l’Europa è un loro diritto: ma ne devono accettare le conseguenze. L’aspetto più ambiguo della questione Brexit (uscita della Gran Bretagna dall’Unione) non è che i britannici chiedano una serie di cose ma che contemporaneamente chiedano di esercitare un controllo su quello che fanno gli altri: è intollerabile”. E aggiunge: “che cosa comporterebbe la separazione della Gran Bretagna? Economicamente non cambia nulla che il regno Unito – mai entrato nell’euro- sia dentro o fuori. Ma è vero invece che quando qualcuno abbandona una struttura che non è un’alleanza ma una “integrazione”, questo delinea un fallimento. Poco importa di chi è la colpa.” (vedasi:la Repubblica, 29 gennaio 2016).
Ecco delineato il cuore del problema. Due debolezze sono a confronto: una Gran Bretagna alle prese con i suoi specifici conflitti ideologico-culturali e sociali, che scarica il tutto su una Unione Europea perennemente a metà del guado di un processo di integrazione mai compiuto; sul cui percorso di completamento annaspa e non riesce a trovare una strategia comune e condivisa. Si chiede Etienne Davignon: “ La domanda è: dovremmo ripensare a un nuovo giuramento? Io credo che sia arrivato il momento di farlo”.
E, invece, cosa accadrà? Avverrà quello che ogni giorno e ogni settimana rappresenta il dramma di “questa” Europa unita che naviga restando a metà del guado. La Unione farà concessioni sul versante dei diritti della cittadinanza europea, per consentire alla Gran Bretagna di poter superare la prova del Referendum anti-Europa. E poi? Poi si vedrà! È la conseguenza della politica del giorno per giorno!
Ma c’è dell’altro. Questo negoziato mette a dura prova il profilo istituzionale della Unione europea. Vediamo come e perché.
I lettori e le lettrici di Diario europeo hanno già potuto acquisire una certa dimestichezza con il modello istituzionale e decisionale della Unione (“La rivoluzione democratica”, 21 dicembre 2015).
Richiamo, pertanto, soltanto un aspetto relativo ai poteri e alla funzione del Consiglio Europeo. “IL Consiglio Europeo dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Non esercita funzioni legislative” (art. 15, comma 1 del Trattato sull’Unione europea). Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo (ed ex premier del governo polacco), Matteo Renzi, Angela Merkel, Francois Hollande, ecc. ecc. – naturalmente, David Cameron – .non sono in quella sede legislatori e non possono cambiare la legislazione che fonda e regola la Unione europea. Cambiare, ad esempio, le norme sui benefici ai lavoratori comunitari, definire norme su una più accentuata sovranità dei parlamenti nazionali (rispetto al quadro giuridico europeo attuale) è di competenza del Parlamento in co-decisione con il Consiglio (attenzione: non il Consiglio europeo).
Alcuni analisti hanno opportunamente sottolineato che: il Regno Unito – a seguito dell’accordo in discussione – potrà bloccare 130 mila assegni familiari ed altri benefici sociali concessi dal sistema britannico di welfare a cittadini dell’Unione residenti in Gran Bretagna (ed applicare lo stesso trattamento a futuri migranti). Questa soluzione implicherà la modifica di precise Norme europee che riguardano la libera circolazione dei cittadini e lavoratori europei (modifica che la Commissione europea dovrebbe impegnarsi a proporre al Parlamento e al Consiglio; ed il Consiglio e il Parlamento dovrebbero adottare, con la procedura della co-decisione legislativa). In questa fase, quindi, il Parlamento – co/legislatore – non è istituzionalmente coinvolto.
In effetti, però. il Parlamento europeo si è auto-coinvolto nel negoziato. E’ ufficiale che “d’intesa con il presidente del PE Martin Schultz- tre esponenti parlamentari: Elmar Brok, Guy Verhofstadt e Roberto Gualtieri, presidente della importante Commissione “Affari economici e Monetari” del Parlamento, partecipano al negoziato e stanno dando il loro contributo a finalizzare un’intesa che contribuisca ad assicurare la permanenza di Londra nell’Unione e valorizzi, nel rispetto dei trattati, il principio dell’integrazione differenziata” (vedasi Lettera a “La Repubblica” del 14 febbraio scorso, del deputato R. Gualtieri).
Colpisce questo formale riconoscimento di una sorta di co-decisione tra il parlamento stesso e il Consiglio europeo: ambedue, però, in una configurazione giuridico-istituzionale non aderente al dettato del Trattato.
Ancora qualche informazione sugli argomenti del negoziato.
Per quanto concerne la competitività, il progetto di compromesso (unitamente a una dichiarazione più dettagliata del Consiglio europeo e a un progetto di dichiarazione della Commissione) enuncia l’impegno a intensificare gli sforzi volti a rafforzare la competitività, unitamente all’impegno di monitorare periodicamente i progressi compiuti nella semplificazione della legislazione e nella riduzione degli oneri per le imprese affinché si riduca la burocrazia. Ottime intenzioni, che, peraltro, riguarda anche gli altri stati membri (salvo verifiche nel dettaglio e in coerenza con le situazioni dei singoli stati); ma, a quanto pare, questi progressi nella integrazione del mercato unico non costituisce il cuore del confronto referendario.
Sugli aspetti istituzionali e d insieme politico-strategici, invece, concedere che Londra non è e non sarà mai” vincolata alla clausola di una integrazione politica” è certamente, di per sé, una ferita al processo di integrazione europea. Va detto anche che non è nella disponibilità del Consiglio europeo cambiare il Trattato, dove si afferma: “Decisi a segnare una nuova tappa nel processo di integrazione europea (…)”; e “ Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa” (cfr. Preambolo del TUE). Affermazioni (certo: non sono Norme!) sottoscritte (cito dalla lista dei firmatari) anche da.” Sua Maestà La Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord” (Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009).
IL testo provvisorio dell’ Accordo – quasi mettendo le mani avanti – afferma, tra l’altro: “I riferimenti a un’unione sempre più stretta fra i popoli sono compatibili con i diversi percorsi di integrazione a disposizione dei diversi Stati membri e non obbligano tutti gli Stati membri a puntare ad una destinazione comune. I trattati consentono un’evoluzione verso un più profondo livello di integrazione tra gli Stati membri che condividono una tale visione del loro futuro comune, senza che ciò valga per altri Stati membri”.
Dunque – sembra voler dire il Consiglio europeo – la nuova Intesa con il Regno unito non lede la attuale configurazione politico-istituzionale della Unione; è dentro il quadro della “integrazione differenziata” alla quale il deputato R. Gualtieri fa riferimento nella Lettera sopra citata. Nello stesso tempo – aggiunge “Diario europeo” – dà un segnale di debole unità (anzi, la certifica) sia all’interno sia all’esterno della Europa unita.
Non siamo, dunque, davanti ad una pagina storica della costruzione dell’Unità europea. Una pagina che si apra al futuro. Servirà, almeno, ad evitare la sconfitta di Cameron, del suo governo e della sua maggioranza (neppure molto leale con il suo premier) al prossimo referendum? Ci sono persino dubbi a tale proposito: all’indomani della diffusione della bozza di accordo, nella prima settimana di febbraio, è stato registrato un balzo in avanti (addirittura) dei favorevoli all’uscita, 45% contro il 36 favorevoli a restare.
Ma facciamo un passo avanti, nell’analisi. Vedremo, nei prossimi mesi, come si configurerà – in termini giuridico-istituzionali – la nuova intesa . Se essa, cioè, possa – oltre che segnare un grado specifico di “integrazione differenziata” con il Regno Unito – nello stesso tempo, configurare anche una spinta per accelerare la stagione di una profonda riconsiderazione del processo di Unità europea che tenga insieme i due Poli: quello che sceglie e prosegue nella la integrazione sempre più stretta, dando vita a una vera e propria Unione politica e quella essenzialmente incentrata nella integrazione dei mercati e dei servizi finanziari. La bozza di testo dell’Accordo, rappresenta a tale proposito una sorta di ufficiale certificazione di una duplice polarità del processo di integrazione (peraltro già riscontrabile nei numerosi – spesso sconosciuti ai popoli d’Europa- Protocolli e allegati ai Trattati). Lo stesso deputato R. Gualtieri, nella sua Lettera sopra citata, aggiunge: “ al tempo stesso rilanciando la necessità di una maggiore integrazione dell’area euro”.
Il capitolo del diverso grado di integrazione di “questa” Unità europea (peraltro non del tutto estraneo nelle ricorrenti manifestazioni di instabilità della posizione economica e monetaria dell’Unione) ogni tanto si apre e si chiude, senza mai giungere ad un vero approfondimento nei diversi suoi aspetti: giuridici, istituzionali e politici e al livello dei Trattati. Eterogenesi dei fini, dunque? Il Consiglio Europeo, accettando questo tipo di negoziato, indirettamente “certifica” l’avvio di quella cosiddetta “Europa a due velocità” , che di tanto in tanto viene evocata? Vedremo nei prossimi giorni.
In realtà un impulso serio e, si spera efficace, continua ad arrivare dalla BCE e dal suo presidente Mario Draghi, che non cessa di “invitare i Governi a muovere nuovi passi, decisivi, nell’integrazione dell’eurozona (i paesi e gli stati membri che hanno adottato la moneta unica). Il livello di divisione tra Paesi della UE è elevato, le crisi sono multiple e le forse centrifughe in crescita: il suo obiettivo è approfondire i legami nell’area euro e completarne l’architettura, anche attraverso nuovi livelli istituzionali. Ma per farlo non basta la tecnica, nemmeno quella dei banchieri centrali: serve la spinta (e l’intelligenza e la perspicacia, aggiungiamo noi) della politica che sembra essere andata persa” (Danilo Taino, Corriere della sera del 5 febbraio 2016).
E’ – con altre parole e altri percorsi analitici – la domanda che si (e ci) poneva prima Etienne Davignon: “dovremmo ripensare a un nuovo giuramento? “. Risponde (e Diario europeo con lui): “Io credo che sia arrivato il momento di farlo”.
Ma il tempo stringe! Non si potrà restare per lungo tempo in mezzo al guado. I popoli d’Europa attendono, pertanto, che il Parlamento europeo – questo Parlamento, non il prossimo – trovi la modalità giusta di affrontare un largo e approfondito dibattito sulle prospettive dell’Unione e sulle innovazioni necessarie – anche al livello dei Trattati – per un nuovo modello istituzionale e di governance. Non le serve molto coinvolgersi nella pratica del giorno per giorno. Lo faccia nel modo più solenne possibile: quasi a consegnare nelle mani del prossimo Parlamento (sia configurato nella duplice forma di una Assemblea costituente e Assemblea legislativa, sia come unica Assemblea con la duplice finalità) la missione risolutiva di una nuova Europa unita.