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Prosegue con questo intervento di Giangiorgio Pasqualotto (titolare della cattedra di Estetica dell’Università di Padova e cofondatore dell’Associazione “Maitreya” di Venezia per lo studio della cultura buddhista) , il dibattito a cura di Amina Crisma sul libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. I precedenti interventi, di Paola Paderni, Luigi Moccia, Ignazio Musu e Guido Samarani sono stati pubblicati nella rubrica “Osservatorio Cina” di questa rivista. Il prossimo intervento è di Attilio Andreini .
Il più recente libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato (Il Mulino, 2015) è un’ opera importante: non solo per la consueta acribia analitica messa in gioco dall’autore, né solo per la sua chiarezza espositiva, né soltanto per la capacità di produrre sintesi con argomenti enormi (come quelli dell’incredibile sviluppo economico cinese e della millenaria tradizione confuciana), ma soprattutto perché ci risulta che il suo sia il primo tentativo di cercare le radici profonde di un’operazione che appare a tutti gli effetti – e non solo agli ‘occhi’ europei – assolutamente inedita ed inaudita: proporre gli antichi insegnamenti di Confucio come modello di vita e di sviluppo per la Cina del futuro.
Scarpari trova tracce evidenti di tale proposta già nel testo di una delle prime ‘uscite’ pubbliche di Xi Jinping, il 29 novembre del 2012, dove si parlava di ‘Strada per la rinascita’ (o per il ‘rinnovamento’): fuxing zhi lu. L‘autore si sofferma giustamente sul fatto che già la traduzione del termine “fuxing” fa emergere un problema cruciale: rilanciare gli insegnamenti di Confucio e del Confucianesimo dopo la rivoluzione maoista e dopo le rivoluzioni economiche promosse dalla Quarta Generazione (Hu Jintao e Wen Jabao) deve considerarsi come una rottura della continuità storica e culturale cinese, ovvero come un recupero di elementi di una tradizione mai del tutto scomparsa? Per uno sguardo esterno alla storia ed alla cultura cinese l’ipotesi più immediatamente accettabile sembrerebbe la prima, se non altro perché apparirebbe la più strana, ossia quella più in linea con il nostro troppo facile e troppo comune pregiudizio di considerare la Cina agli antipodi di ogni tradizione europea: proporre, nel XXI secolo, gli insegnamenti di Confucio e del Confucianesimo come fonti esemplari di modelli etici e politici ci appare affatto assurdo, come se Obama o la Merkel proponessero la filosofia di Platone come guida della vita pubblica e privata dei cittadini occidentali di oggi e di domani. Invece, grazie alle indicazioni di Scarpari, possiamo capire che non è così: che fuxing va inteso come una ‘rinascita’, come un rifiorire di una tradizione millenaria che ha avuto un’interruzione di solo un secolo, quello dell’”umiliazione nazionale” (bainian guochi): dal 1839, anno che segnò l’inizio dell’occupazione inglese, al 1949, anno che inaugurò la Repubblica Popolare.
Quali sono i principi fondamentali che rendono possibile questo recupero intendendolo come vera e propria ‘rinascita’? Scarpari richiama all’attenzione il contenuto del noto incontro di Confucio con l’allievo Ranyou che chiese ”Se il popolo è già così numeroso, che altro resta da fare?”; Confucio rispose: “Renderlo prospero!”; e Ranyou incalzò: “E se già è prospero, che altro resta da fare?”; “Educarlo!” rispose Confucio. Appaiono qui evidente le ragioni del perché tali insegnamenti confuciani risultino attualissimi: essi ricordano che la prosperità economica è una necessità primaria, ma dichiarano altresì che questa non è sufficiente, e che va integrata con il benessere culturale. A tale proposito, molto opportunamente, Scarpari non ritiene superfluo soffermarsi a spiegare cosa significhi “educare” in senso confuciano: rinvia ad un “coltivare la virtù” inteso come miglioramento di se stessi, dove, però, tale miglioramento non va mai disgiunto dal perfezionamento delle relazioni tra se stessi e gli altri, siano essi i familiari, i consanguinei, i concittadini o gli esseri umani in generale. Non solo: tale miglioramento e perfezionamento vanno coltivati in modo tale da attirare anche popoli lontani. Ecco infatti le parole con cui Confucio volle precisare le modalità del ”coltivare la virtù”: “Date queste condizioni, la gente verrà numerosa da ogni direzione” (Lunyu, 13.4).
Ebbene, queste, che potrebbero apparire come generiche esortazioni morali valide per ogni tempo e luogo, vengono assunte dall’attuale dirigenza cinese come linee-guida di scelte politiche per il presente e per il futuro, rivolte sia all’interno, per garantire la pace sociale, sia all’esterno per conquistare un consenso mondiale. Tutta la seconda parte del libro di Scarpari (Capp. IV, V e VI) è dedicata a mostrare puntualmente – ossia attraverso l’utilizzo di documenti ufficiali prodotti dai più recenti Governi cinesi e mediante citazioni dirette dei testi confuciani – come e quanto gli insegnamenti della tradizione sedimentata in tali testi vengano rivitalizzati per fondare e sostenere le proposte innovative delle politiche, attuali e a venire, della Repubblica Popolare Cinese.
Tra gli insegnamenti di questa tradizione, un’attenzione privilegiata va riservata a quelli dedicati al tema della ricerca dell’armonia. Scarpari ricorda che tale tema confuciano – in realtà maggiormente presente in Mencio, il più importante divulgatore degli insegnamenti di Confucio – viene ripreso nello specifico da Hu Jintao nel discorso del 1° luglio 2011, pronunciato in occasione del novantesimo anniversario della fondazione del PCC. L’aspetto decisivo che viene messo in rilievo da Hu Jintao nel citare Mencio è la centralità dell’idea che “il popolo è il fondamento” e, di conseguenza, che la priorità della politica è di assicurarsi il consenso incondizionato del popolo. Per ottenere questo risultato – come viene ripetutamente ribadito nei discorsi di Hu Jintao – non è sufficiente ricorrere a retoriche o a manovre populiste, ma è necessario operare fattivamente per creare una “società armoniosa” (hexie shehui). Il fatto più interessante è tuttavia che questo concetto di “società armoniosa” non va applicato soltanto ai rapporti interni (alla famiglia, alla comunità sociale, allo Stato) ma anche a quelli esterni (tra Stati e tra popoli diversi), come emerge con particolare chiarezza nel discorso di Hu Jintao pronunciato all’ONU il 15 settembre 2005.
Il lavoro di Scarpari non si limita tuttavia a rintracciare i punti in cui i dirigenti cinesi rievocano ed utilizzano passi di Confucio e dei Confuciani in cui si parla di ‘armonia’: esso si sofferma anche a considerare l’eccezionale portata concettuale di questo termine. ‘Armonia’, infatti, non rinvia ad una condizione statica, dove le parti in causa trovano stabilità e serenità rimanendo immobili ed inerti; ma indica una “partecipazione attiva”, un agire costante alla ricerca di un punto di equilibrio tra posizioni e visioni diverse.
Qui si misura l’enorme distanza tra il concetto di ‘armonia’ e quello di ‘pace’, almeno nel senso con cui quest’ultimo si è realizzato nella storia dell’Occidente, dove la Pax Romana – e poi tutte le altre ‘paci’ imperiali – si è data come risultato di una pacificazione forzata, ossia di stabilità e di tranquillità imposte mediante la forza e la guerra. L’ambizione cinese – almeno negli intenti – sembra invece diversa, come appare evidente da queste parole di Scarpari: “Essenziale è tenere tutti in gioco: dal tentativo di esclusione e di isolamento originano, infatti, i più insanabili conflitti, dall’esclusione scaturiscono il disordine sociale e, spesso, le guerre. Né la guerra né la pace rappresentano la migliore soluzione al problema del conflitto, solo la ricerca di soluzioni equilibrate che risultino vantaggiose per tutti e favoriscano la reciproca comprensione delle posizioni e dei valori di ognuna delle parti in gioco è in grado di garantire un’armonia reale, completa e duratura” (p. 131). Non è un caso che una delle arti privilegiate da Confucio e dal Confucianesimo fosse la musica sinfonica, ossia quella forma di arte musicale in cui la diversità dei suoni prodotti da strumenti diversi può trovare accordi senza mai annullarsi nell’indifferenza di un unico suono o del silenzio. Il concetto di ‘armonia’ è talmente centrale in questa attuale ripresa di Confucio e del Confucianesimo che Scarpari dedica ad esso le pagine a nostro avviso più intense ed importanti del suo libro. E non è un caso se nel paragrafo conclusivo egli fa riferimento a Zhao Tingyang, un autore contemporaneo che riattualizza il concetto di tianxia (“ciò che è sotto il cielo”) all’interno di una prospettiva centrata proprio sul principio confuciano di “armonia nel rispetto delle diversità” (he er bu tong).
Nonostante il fatto che in questo Ritorno a Confucio dell’illustre sinologo italiano siano prevalenti i tratti di un atteggiamento positivo, non mancano i segni di ragionevoli dubbi e di legittime perplessità. Scarpari infatti non utilizza la massa dei dati raccolti e la qualità dei concetti messi in gioco per approdare a comode considerazioni finali di carattere irenico o, all’opposto, catastrofista: dati e concetti vengono offerti al lettore come materiali di conoscenza ma, soprattutto, come occasioni per porsi alcune domande cruciali sul futuro della Cina quale parte sempre più integrante del nostro futuro e del futuro planetario. Tra queste domande spicca quella con cui si chiude il libro: “Sarà sufficiente la sua [di Confucio] saggezza millenaria a guidare le azioni dei potenti e indicare loro la corretta via da seguire?”
GIANGIORGIO PASQUALOTTO
(dibattito a cura di Amina Crisma, in collaborazione con www.inchiestaonline.it)