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(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)
Appare finalmente in traduzione italiana (a cura di Giulia Kado, Einaudi 2016) un’ampia antologia dello Han Feizi, opera fondamentale del pensiero politico della Cina antica il cui autore formula una disincantata teoria del potere e della natura umana per certi versi accostabile alle concezioni di Niccolò Machiavelli. In collaborazione con www.inchiestaonline.it, pubblichiamo la recensione di Amina Crisma apparsa su Alias, supplemento de Il manifesto, il 17 aprile 2016. L’ immagine in alto è del maestro Han Fei (circa 250-233 a.C).
Nonostante i considerevoli sviluppi degli studi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, nella percezione corrente l’immagine della Cina antica sembra rimanere perpetuamente affidata allo stucchevole stereotipo “orientalistico” di un’eterna, univoca e prevedibile saggezza, della quale “confucianesimo” e “taoismo” – a loro volta effigiati come immobili entità metastoriche anziché come fenomeni multiformi, dinamici e cangianti – sarebbero gli unici e invariabili ingredienti. Eppure, già da tempo sono disponibili al lettore italiano riferimenti divenuti ormai classici, da La ricerca del Tao di Angus C. Graham (Neri Pozza 1999, ed. or. 1989) alla Storia del pensiero cinese di Anne Cheng (Einaudi 2000, ed. or. 1997), che offrono rappresentazioni assai articolate dell’epoca degli Stati Combattenti, fra il V e il III secolo a.C., fertile stagione di libero dibattito e di ineguagliata creatività intellettuale. Da esse si può agevolmente evincere il grande rilievo di una corrente che ha a lungo subito una sorta di pervicace damnatio memoriae da parte della storiografia di ispirazione confuciana, e che invece ha profondamente inciso sull’esprit des moeurs e sulle istituzioni cinesi, come già mostrava un pionieristico studio di Léon Vandermeersch (La formation du légisme, 1965); la sua duratura influenza sino ai giorni nostri si può constatare, fra l’altro, dalle significative rivendicazioni del suo retaggio esibite da Xi Jinping nel corso di alcune dichiarazioni pubbliche. Si tratta del cosiddetto”legismo” (fajia), un indirizzo emerso nell’ambito della prassi e della teoria politica alla corte dello stato di Qin, protagonista dell’unificazione cinese; esso ispirò le radicali riforme di Shang Yang, vissuto nel IV secolo a.C., a cui si attribuisce lo Shangjunshu, ossia il Libro del Signore di Shang (Adelphi 1989) e pose le premesse per la fondazione nel 221 a.C. dell’impero centralizzato. Tale orientamento è improntato a una pragmatica considerazione della realtà effettuale, e delinea una tecnica del potere destituita di ogni connotazione etica e di ogni rispetto per la tradizione; la sua più compiuta elaborazione si deve a un grande pensatore che Jean Levi (Le Tao du Prince, Seuil 1999) propone di accostare a Machiavelli e a Hobbes: Han Feizi.
Nato all’inizio del III secolo e discendente diretto dei duchi di Han di cui portava il nome, egli fu uno dei rari pensatori della Cina antica appartenente all’alta nobiltà. Inviato come ambasciatore a Qin presso il futuro Primo Imperatore, fu oggetto di una violenta campagna denigratoria, imprigionato e costretto al suicidio nel 233: non diversamente da altri illustri “legisti” (fatti a pezzi come Shang Yang, o come Li Si, primo ministro di Qin fra il 246 e il 208 a.C., le cui sorti ci rammentano quanto si narra ne Il Principe di Remirro de Orco, zelante emissario del duca Valentino che per suo ordine finì tagliato in due), egli fu vittima di una morte violenta ad opera di quel potere sovrano al cui consolidamento aveva dedicato tutte le risorse della sua acuta intelligenza.
L’opera che ne reca il nome è un insieme di saggi, coerentemente argomentati in un’energica prosa, in cui alle disincantate riflessioni circa la natura eminentemente egoistica degli esseri umani si affiancano considerazioni ironiche e beffarde nei confronti delle loro marcate propensioni alla credulità e alla stolidità, esemplarmente effigiate in memorabili aneddoti spesso divenuti proverbiali: come il racconto dell’uomo di Song, che poiché ha visto una volta una lepre andare a schiantarsi contro un ceppo, rimane perennemente in fiduciosa attesa del prodursi di un identico caso, o la boccaccesca vicenda del vecchio messer Li, convinto dalla giovane moglie che il ragazzo nudo dai lunghi capelli uscito dal letto di lei non è il suo amante, bensì una visione demoniaca di cui il marito si dovrà esorcizzare immergendosi negli escrementi di molti diversi animali.
Non meno della forza del ragionamento, è un sapido gusto narrativo a fare di questo libro uno dei testi più straordinari della letteratura cinese di tutti i tempi.
Un’estesa antologia dello Han Feizi (29 capitoli sui 55 che compongono l’opera) viene oggi presentata per la prima volta in edizione italiana a cura di Giulia Kado, già autrice di una traduzione dei capitoli 36-39 (Le confutazioni di Han Fei, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici 2009), con il corredo di una succinta postfazione la cui brevità, forse dettata dall’intento di non tediare il pubblico con apparati troppo grevi, lascia peraltro un po’ sfocati alcuni aspetti sui quali la curiosità dei lettori rimane inappagata, come ad esempio l’esplicitazione dei criteri in base ai quali sono stati selezionati i testi proposti. Tale questione risulta di speciale interesse in considerazione del carattere composito del libro che, come evidenziano recenti ricerche, dà luogo a diverse interpretazioni delle posizioni dell’autore: c’è chi lo vede come teorico dell’autocrazia e fautore di un’assoluta obbedienza di ministri e sudditi, e chi invece lo ritiene, sì, sostenitore di un ordine autocratico, ma in ultima analisi rivolto alla sicurezza e al benessere del popolo; c’è chi sottolinea una sua pressoché ossessiva dedizione all’interesse del sovrano, e chi ne mette in luce, piuttosto, l’adesione al punto di vista della burocrazia.
Ciascuna di queste tesi può essere comprovata sulla base di pagine diverse del testo, che non di rado sconcerta il lettore per il suo elevato grado di contraddittorietà. Ma anche questa constatazione dà luogo – a sua volta – a conclusioni divergenti: alcuni interpreti avanzano l’ipotesi che il testo sia una miscellanea partorita da autori diversi, altri invece lo ritengono frutto di un unico autore, il quale adatta abilmente a circostanze e a uditori diversi i propri discorsi, indirizzando, volta a volta, agli orecchi del sovrano o dei ministri le fertili risorse di una retorica persuasiva ed efficace.
Tuttavia, le diverse prospettive mostrate dallo Han Feizi, che continuano a dar luogo a grandi dibattiti, si possono forse ricondurre – come già Angus C. Graham a suo tempo aveva intuito e come una vasta esegesi contemporanea sostiene (si veda, ad esempio, Yuri Pines, “Submerged by Absolute Power: The Ruler’s Predicament in the Han Feizi”, in P.R. Goldin (a cura di), Dao Companion to the Philosophy of Han Fei, Springer, Dordrecht 2013, pp. 67-86) – a una procedura dialettica coerente, articolata in tappe diverse e riassumibile nel modo seguente: in primo luogo, si afferma l’esigenza di rafforzare l’autorità del sovrano di cui si celebra il potere assoluto, e lo si esorta soprattutto a guardarsi da chi gli sta più vicino (ministri, mogli, concubine, figli sono tutti suoi potenziali traditori e nemici). Poi, al di là di questa fase, si procede a neutralizzarne la soggettività: egli viene di fatto ridotto alla funzione impersonale di assegnare ricompense, incarichi e castighi, in stretta aderenza all’imparzialità di “leggi e metodi” (fa). E alla fine, si scopre che queste strategie sono, in ultima istanza, insegnate al sovrano e concretamente attuate da esperti del genere a cui appartiene Han Feizi: sono questi specialisti, in effetti, a detenere il reale potere dello Stato sotto la superiorità nominale del monarca, onnipotente in quanto istituzione, ma neutralizzato in quanto individuo.
Sotto questo profilo, Han Feizi si rivela meno lontano di quanto un tempo si credesse dagli altri pensatori della sua epoca, e sembra condividere con loro, al di là delle molte differenze, il fine di edificare un possente stato centralizzato in cui gli intellettuali/funzionari (shi) gratificano di omaggi ufficiali il sovrano, ma in realtà governano in sua vece.
Quanto alla questione dell’adeguatezza o meno del termine “legismo”, sollevata di recente da Paul R. Goldin in un suo saggio intitolato “Persistent Misconceptions about Chinese ‘Legalism’” (Journal of Chinese Philosophy 1, 2011, pp. 88-104), la postfazione vi allude vagamente, e con qualche equivoco: i persistenti fraintendimenti di cui si discute non hanno tanto a che fare con “i connotati negativi” attribuitigli (p. 313), quanto piuttosto con la difficoltà di definirlo in termini di “scienza amorale dello stato”, che a sua volta rinvia alla problematicità di una resa univoca del termine fa con “legge”. Il suo fluido campo semantico concerne, in senso lato, i metodi (in special modo le determinazioni di ricompense e castighi) che garantiscono l’efficienza dell’amministrazione e la docilità dei sottoposti, e dunque include la nozione di “legge”, ma non vi si esaurisce.
AMINA CRISMA
(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)